Sul ponte Sant'Angelo a Roma

Fare la pipì addosso a un povero Esiste una bassezza più grande?

Fare la pipì addosso a un povero Esiste una bassezza più grande?
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Un livello di abiezione come questo era davvero difficile immaginarlo: è quello raggiunto dal tifoso dello Sparta Praga che arrivato a Roma per seguire la sua squadra nella sfida con la Lazio, sul ponte di Sant’Angelo fa la pipì su una mendicante prostrata sull’asfalto. Un gesto di una sfrontatezza ributtante, perché fatto in mezzo al selciato, aprendo i pantaloni davanti a decine di persone che attraversavano quel posto meraviglioso di Roma. Soprattutto un gesto disumano, più disumano persino di un eventuale gesto di violenza: perché è come dire a quella persona sdraiata ai suoi piedi, “tu non sei niente, sei un rifiuto umano”. La violenza implica una responsabilità, un mettere le mani su quel corpo. Invece quel tifoso ha scelto di tenere le distanze, di marcare la propria superiorità, di fare un qualcosa che non implicasse particolari responsabilità oggettive, ma che contenesse solo un messaggio di disprezzo.

 

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Come ulteriore segno di oltraggio, dell’energumeno praghese e dei suoi soci non sappiamo nulla aldilà di quello che hanno fatto. Sono tornati alla loro normale vita, senza che di loro sia rimasto neanche un nome. Perché una delle caratteristiche del male è quella di porsi come fenomeno informe, di non avere volto, di voler contaminare il mondo in modo anonimo. La volgarità del gesto è anche nel fatto che non contempla neanche la minima necessità di fornire una motivazione. Non basta dire che è strafottenza da energumeni, come si è voluto liquidare l’episodio. È violenza culturale e psicologica pervasiva, che cerca subito connivenza o cresce nell’omertà dei tanti che hanno visto e invece che bloccare il tifoso se ne sono stati lì a fotografare.

È stata la vittima a sottolineare questo paradosso. Ha raccontato: «Ho alzato gli occhi e ho visto persone che fotografavano». Di lei sappiamo tutto: si chiama Isabela Caldarar, è rumena, viene da Sibiu, ha 45 anni. È sposata con Karol Viktor, che “lavora” sul ponte Umberto I. Hanno cinque figli di 22, 10, 6, 3 anni e anche uno di un anno e un mese, e stanno tutti in Romania. Con molta calma spiega la sua situazione: «Io lavoro su questo ponte, mio marito su quell’altro e sotto un altro ponte a Roma nord dormiamo e viviamo». Colpisce la dignità con cui mette a nudo la sua vita, senza mostrare risentimenti verso quel ragazzo che l’aveva umiliata in quel modo. «Sentivo gocciolare qualcosa. Erano ubriachi, dagli occhi stupidi. Ho avuto paura, mi sono alzata e sono andata via».

 

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Lei è abituata alle umiliazioni. Quante persone le passano a distanza sibilando “fai schifo”. Quante le si rivolgono imprecando “torna a casa tua”. Ma lei a casa ha perso tutto. Era contadina ma ora, dice, «da noi è la miseria più nera». Deve essere davvero terribile passare la giornata con la fronte chinata sull’asfalto per implorare un aiuto e nello stesso tempo per dichiarare la disperazione della propria vita. Umiliarsi anche fisicamente, dichiarare la propria impotenza sperando in qualche cuore caritatevole. Dichiarare senza mezzi termini la propria condizione di mendicanza.

Verrebbe da augurarsi che per contrappasso l’ignoto urinatore si debba trovare un giorno a dover vivere quella condizione. Ma quel prostrarsi implica anche una dolorosa dignità. E quella non la si può imporre.

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