Trattati come animali allo zoo

La gita snob di un college tra la classe operaia allo stadio

La gita snob di un college tra la classe operaia allo stadio
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Che il calcio e la sua capacità di smuovere grandi masse di persone appassionate sia un fenomeno sociologico assai interessante, non è certamente cosa nuova. Da tempo, infatti, studiosi osservano con occhio “clinico” il calcio, ma soprattutto coloro che quel pallone lo fanno realmente scorrere sul terreno di gioco: non i calciatori, bensì i tifosi. Quelli del Varndean College di Brighton, però, forse hanno esagerato un po’. Il caso è scoppiato settimana scorsa, l’11 dicembre, quando i principali quotidiani d’Oltremanica hanno pubblicato la notizia che i vertici della scuola privata d’élite, nota per preparare futuri oxfordiani e menti eccelse di Cambridge, avevano organizzato una gita propedeutica allo sviluppo intellettuale (così l’hanno chiamata) decisamente particolare: una spedizione dei propri giovani studenti a Londra, per assistere a una partita casalinga del Millwall Football Club, squadra che milita nella Championship inglese (la loro Serie B), allo scopo dichiarato di imparare qualcosa sulle abitudini «della classe operaia» e sulle caratteristiche dei suoi appartenenti, quali «mascolinità, omofobia e razzismo».

Come allo zoo. Un’iniziativa che il Times ha abilmente riassunto come gita «per studiare come sono fatti i poveri». Se non volete chiamarlo razzismo, di certo si può parlare di cattivo gusto e discriminazione sociale di non poco conto. Inutile dire che la classe operaia, non per forza appassionata di pallone, è andata su tutte le furie, sentendosi trattata come bestie in uno zoo. Il Varndean College ha rifiutato di commentare l’accaduto e lo stesso ha fatto la società del Millwall, che ha già il suo bel da fare nel tentare di ripulire l’immagine del club, ancora oggi legata alle nefandezze dei suoi hooligans, compiute principalmente tra gli anni ’80 e i primi anni ’90, ma ancora oggi non del tutto eliminate.

Un po’ di storia. Del resto i professori del Varndean non hanno scelto a caso il Millwall. La società londinese, che vanta appena poche stagioni in massima serie nella sua più che secolare storia, è tristemente nota nel mondo per la sua tifoseria violenta. Fondata nel 1885 da alcuni operai di Tower Hamlets, quartiere nell’East End di Londra, appena sopra il Tamigi, raccolse immediatamente le simpatie dei portuali e dei manovali della zona. Nel 1910 il Millwall si trasferì a Sud del Tamigi, nella zona di South Bermondsey, dove però non ha perso la sua essenza operaia, guadagnando anzi nuovi supporters tra i lavoratori delle fabbriche del quartiere, pur mantenendo i vecchi tifosi. Il problema è che, attorno al The Den (“la tana”), lo stadio della società, si iniziarono a mescolare alla tifoseria operaia anche piccoli gruppi di estrema destra, dichiaratamente xenofobi, omofobi e razzisti. Un sottoproletariato bianco tipico della periferia londinese della prima metà del ‘900 e oltre. Nacquero i Millwall Bushwackers e il loro motto: “No one likes us, we don’t care” (“non piacciamo a nessuno ma ce ne freghiamo”). Un perfetto riassunto della loro essenza, la passione calcistica come valvola di sfogo di una rabbia sociale latente e dilagante.

Tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80 del Novecento, le violenze degli hooligans sconvolsero l’intera Inghilterra e in prima fila tra i più “cattivi” c’erano proprio loro, i supporters del Millwall. La campagna poliziesca messa in atto da Margaret Thatcher contro gli hooligans riuscì, di fatto, ad allontanare dagli stadi le frange più violente, ma non ad eliminarle totalmente, soprattutto in alcune tifoserie ancora molto legate alla loro essenza primordiale, proprio come quella del Millwall. Ancora oggi una trasferta al The Den rappresenta un viaggio rischioso ed è la stessa società a sconsigliare, sul proprio sito, di girare nei dintorni dello stadio con maglie o qualsivoglia vessillo della squadra avversaria. Men che meno di recarsi nei pub vicini per tifare la squadra avversaria del Millwall: le risse sono assai frequenti.

Sociologia solo se ben fatta. Da questi pochi cenni storici si può capire come, effettivamente, uno studio sociologico legato al mondo dei tifosi del pallone non sia, di per sé, un’idea folle. Soprattutto in Inghilterra, dove ogni società ha un proprio substrato storico e sociale molto forte e personale. Prendete Londra, la città con più squadre professionistiche all’attivo: c’è l’Arsenal, la squadra della Regina, quella dell’antica “nobiltà” londinese; c’è il Chelsea, da sempre squadra medio-borghese e, dall’arrivo del magnate russo Abramovich alla presidenza, identificata come la squadra dei nuovi arricchiti; c’è il Tottenham, nato attorno alla vivissima e combattiva comunità ebrea di Londra; ci sono il West Ham e il Millwall, per l’appunto, cioè le squadre dei poveri, degli operai, di quelli che hanno nel calcio l’unica possibilità di rivincita sociale. Insomma, di spunti e di storie da analizzare, studiare, investigare da un punto di vista sociologico ce ne sarebbero tante. Ma il metodo scelto dal Varndean College, forse, è il più sbagliato e ridicolo: far vestire i panni di “poveri della classe operaia” a ragazzini di 16 anni cresciuti negli agi dell’upper class londinese non fa altro che tracciare ulteriori barriere sociali e fomentare forme di discriminazione.

Alla fine la vittoria del Millwall sul Brighton & Hove Albion (per 1 a 0), partita giocatasi venerdì 12 in quel piccolo gioiello che è l’Amex Stadium (ne avevamo scritto QUI), senza scontri o tensioni di alcuna sorta, è la miglior risposta che i tifosi della squadra londinese hanno potuto dare a quelli del Varndean College e a chi pensa che studiare la sociologia nel calcio sia come fare una gita allo zoo.

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