Emanuele e Nadia Benedetti

I due fratelli del parco Le Cornelle che vivono dentro l'arca di Noè

I due fratelli del parco Le Cornelle che vivono dentro l'arca di Noè
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Emanuele Benedetti è nato a Ponte San Pietro cinquant’anni fa (li compie il 1 luglio), risiede a Valbrembo, ma abita a Bergamo. Finita la terza media il papà Angelo Ferruccio gli ha detto: «Vieni alle Cornelle perché qui c’è da lavorare». Da allora ha sempre vissuto nell’appartamento all’ingresso del Parco Faunistico. Sposato, è padre di due figli di 14 e 11 anni. Comincia alle 6 di mattina e torna a casa intorno alle 20, quando tutti gli animali sono rientrati nelle loro casette. Nadia Benedetti è la sorella maggiore di Emanuele. Anche lei nata a Ponte San Pietro, da cinque anni è tornata a vivere nel paese d’origine, dopo una vita trascorsa nel Parco. Sognava di frequentare il liceo artistico, ma in famiglia c’era bisogno di qualcuno che conoscesse le lingue e i genitori la iscrissero al liceo linguistico. Le necessità al Parco però erano tante e un giorno, prima di finire gli studi, il papà le ha detto: «Vieni alle Cornelle perché qui c’è da lavorare». Spiegano i due fratelli: «Nostro padre non era di tante parole, bastava uno sguardo. Essendo noi i più grandi, ha voluto tramandarci la sua passione per gli animali».

 

«Il 1 aprile abbiamo inaugurato la nuova area degli elefanti, abbiamo due femmine. Venga a vederla, è stato un altro investimento importante».

Come va il Parco delle Cornelle? Quanta gente lo visita?
«Dipende dagli anni, e soprattutto dal tempo, ma generalmente dal punto di vista economico si regge. Abbiamo in media 350mila visitatori l’anno».

Vostro padre è stato il Noè di Bergamo...
«Era un alpino e si chiamava Angelo Ferruccio. Nostro nonno faceva il panettiere a Ponte San Pietro, ma al papà quel mestiere lì non piaceva. Così un bel giorno nel cortile di casa aprì un’armeria: vendeva fucili ma anche uccelli da richiamo ai cacciatori. Il commercio prese piede e comprò un terreno a Mozzo dove insediò una ditta di import-export di pappagalli, scimmiette e altri piccoli animali. Serviva gli zoo di tutta Europa».

 

Emanuele e Nadia Benedetti

 

Aveva una passione incredibile per gli animali.
«In tanti a quell’epoca lo prendevano per pazzo. A un certo punto a Valbrembo trovò il luogo dove avrebbe costruito la sua Arca. La zona si chiamava “Cornelle”: Quando andò a chiedere un mutuo in banca per costruire uno zoo lo guardarono tutti straniti, tanto più che lui parlava di animali più che di business. Non gli interessava guadagnare per forza, ma erano anche tempi in cui le banche ti davano fiducia. Ottenuto quel che desiderava, prese la famiglia, la trasferì alle Cornelle, cominciò a picchettare recinti per animali anche di grossa taglia e quando acquistò un leone e un cammello, nel 1981, aprì il parco».

Angelo Benedetti è morto nel novembre del 2011.
«Sì, dopo aver visto realizzato il suo sogno, ma prima di andarsene ci ha passato il testimone».

E oggi siete voi, Emanuele e Nadia, i due titolari del Parco delle Cornelle, giusto?
«Non esattamente. Il Parco è a conduzione familiare ma è una srl. La maggioranza delle quote è nostra, poi c’è una piccola quota dell’altra sorella e nella società c’è anche nostra madre»

Ricevete contributi dallo Stato, dalla Regione, dalla Provincia o dall’Europa?
«No, il nostro è un parco privato e non abbiamo nessun tipo di contributo. L’attività è classificata a parco e abbiamo una licenza di giardino zoologico, per cui dipendiamo dal Ministero dell’Ambiente e siamo considerati alla stregua di un’attività commerciale. Quindi, per fare un esempio, paghiamo l’Imu, anche sulla casetta della tigre».

 

 

L’unico vostro introito è il biglietto d’ingresso.
«Sì, oltre agli affitti delle attività commerciali che ci sono all’interno: bar, ristorante, souvenir e il parco dei bambini».

Il biglietto costa?
«Quindici euro, ed è uno dei prezzi più bassi tra i parchi faunistici. I bambini pagano undici euro, sotto i tre anni è gratuito e sopra i 65 è scontato».

Qual è stagione in cui è più frequentato?
«La primavera perché non fa caldo né freddo, la stagione sciistica è finita e non è ancora cominciata quella balneare. I giorni più gettonati sono ovviamente il sabato e la domenica».

Nei giorni feriali non c’è tanta gente?
«È una questione culturale. Il giardino zoologico in Italia non è visto come negli altri Paesi europei nei quali anche durante la settimana ci sono sempre visitatori. Noi italiani quando fa freddo o fa caldo preferiamo andare ai centri commerciali».

State dicendo che la cultura della zoo in Europa è molto più sviluppata che da noi?
«Sì, lo zoo viene vissuto diversamente. Si vanno a vedere gli animali e fin da piccoli si insegna che il giardino zoologico esiste per la salvaguardia delle specie in via di estinzione, che gli zoo collaborano alla creazione di zone protette nella zona d’origine delle bestie e che servono anche per sensibilizzare le persone. Si spiega anche che i parchi fanno ricerca e donazioni per conservare gli animali nel loro ambiente naturale. Qui da noi, invece, ti fanno subito notare che poverino l’animale è nella gabbia stretta e lo scrivono su Tripadvisor o mandano segnalazioni alle autorità: non c’è la minima consapevolezza del significato di questi luoghi».

 

 

Le regole a cui un Parco faunistico deve sottostare sono rigide?
«Diciamo che non sono sempre chiare. Ma la nostra è un’attività particolare: abbiamo a che fare con migliaia di visitatori e ci sono centinaia di animali, per cui ti metti in discussione tutti i giorni».

In effetti sta crescendo molto la sensibilità per il benessere animale.
«Sì, ed è un bene. Ma sta crescendo anche in un modo non sempre giusto. A volte c’è meno sensibilità verso l’uomo. Comunque gli animalisti ci sono sempre stati. Non sono loro il problema, la vera questione è culturale».

Voi fate parte della Eaza, l’Associazione europea di zoo e acquari, che adotta protocolli precisi.
«Le linee guida della Eaza sono seguite da tutti i grandi parchi, cambiano in continuazione e quindi c’è sempre qualcosa da migliorare o da adeguare. Noi lo stiamo facendo, un passo alla volta».

Vi state espandendo?
«Non vogliamo espanderci, stiamo riqualificando. Due anni fa abbiamo rifatto il primo viale trasformandolo in una savana. Ci sono Gerardina e Lara, due rinoceronti femmine, che hanno un ampio spazio in cui muoversi e di notte vanno a dormire nelle casette, con riscaldamento a pavimento».

Nelle nuova area riservata agli elefanti se non sbaglio c’erano i muli degli alpini che vostro padre volle salvare… Li avete ancora?
«Povere stelle, erano già in pensione all’epoca... Oggi però un’operazione del genere non sarebbe più possibile. Le direttive dell’Eaza non lo consentirebbero ».

E dove andate a prendere gli animali?
«Oggi è tutto controllato e organizzato: ci sono coordinatori in base alla specie, i quali dicono, ad esempio, dove deve andare un rinoceronte maschio con una determinata linea di sangue, perché serve per la riproduzione».

 

 

State dicendo che gli animali non li acquistate più ma vi arrivano?
«Arrivano o vanno. Un tempo se un parco voleva un leopardo delle nevi, se lo comprava. Oggi c’è un continuo scambio fra giardini zoologici e si paga solo il trasporto. Può succedere che arrivi un bongo femmina perché noi abbiamo qui il maschio e così si favorisce la riproduzione. Poi, dove è possibile, si fanno anche dei programmi di reintroduzione in natura. Non vale di certo per il leone cresciuto in un parco, abituato a trovarsi la carne “sul piatto” senza doverla cacciare. Ma in Tunisia, ad esempio, c’è capitato di reintrodurre delle orici».

Scusi?
«Le orici, sono antilopi africane di grossa taglia. Mangiano l’erba qui, la mangiano là».

Partecipate anche a progetti di salvaguardia delle specie nei paesi d’origine?
«Sì, siamo impegnati oltre che per le orici, per il grifone, i ghepardi in Namibia e il leopardo delle nevi».

L’ho appena visto appollaiato sulla pianta, vale il prezzo del biglietto…
«È un animale bellissimo».

Quindi non può capitare che vi portino un animale esotico trovato in giro?
«No. Oggi non accade più, anche perché sono cambiate le autorizzazioni da parte del Ministero della Salute. Noi siamo Giardino zoologico riconosciuto, per cui ogni animale che arriva qui o proviene da un altro centro come il nostro, dove ciclicamente vengono fatti rigorosi test per verificare che non siano ammalati, oppure prima di entrare deve essere messo in quarantena. Non è così semplice. Quelli che sono qui sono tutti animali certificati».

Le tigri bianche sono quelle che hanno reso famoso il Parco...
«Siamo stati i primi a importarle in Europa nel ‘93, con un investimento folle per l’epoca. Le abbiamo pagate centomila dollari, più i costi della struttura, più altri cinquantamila dollari per il mantenimento mentre aspettavamo i permessi. Ma hanno dato la svolta al Parco: dopo il loro arrivo (dagli Stati Uniti) è cambiato tutto».

 

 

Quanti sono in tutto gli animali?
«Con gli uccelli circa 1200. Alcuni uccelli, come gli Ibis o i pappagalli, sono liberi e si possono vedere anche fuori dal Parco».

Mantenerli costa molto?
«Sì, parecchio. Abbiamo la fornitura di carne, che tra l’altro è carne uso umano (non di prima scelta, ovviamente); il pesce lo facciamo arrivare direttamente dall’Olanda e il secondo fornitore è l’Orobica pesca; frutta e verdura ce le porta Marino Boffetti, di Almé, che fornisce tutti i ristoranti e i fruttivendoli della zona. Poi ci sono ditte specializzate che producono i mangimi per lo struzzo, l’antilope, la scimmia o il pinguino. Gli animali vengono controllati regolarmente: il nostro direttore è un veterinario, al quale se ne affiancano altri due. Venga, le facciamo vedere l’area delle cucine che è inaccessibile al pubblico. Qui c’è la carne, qui il pesce, le verdure, i mangimi per gli struzzi, è tutto pronto».

Pronto e pulito. Quanta gente lavora alle Cornelle?
«I dipendenti del Parco Faunistico sono 26, tra addetti agli animali, segreteria e amministrazione. Con le attività di ristorazione e i bar si passano le cento persone».

Vi piace questo lavoro?
«Ormai ce l’abbiamo nel sangue, ma è molto impegnativo. Siamo qui da 36 anni e il tempo che abbiamo dedicato al Parco è infinito. Da cinque anni chiudiamo nei mesi di dicembre e gennaio, ma prima eravamo aperti 365 giorni l’anno, anche a Natale e il Primo gennaio. Ora usiamo i due mesi più freddi per fare i lavori. Ma sempre, anche se hai un direttore o una struttura che funziona, tu devi comunque essere qui. Noi siamo diventati grandi in questo posto, lo abbiamo abitato e vissuto tutti i giorni. Ogni tanto avere del tempo per se stessi o per la propria famiglia non farebbe male, ma la nostra è un’azienda anomala. Nelle altre ci sono le macchine, qui ci sono gli animali e un animale può avere un qualsiasi problema in qualsiasi momento. Non puoi chiudere i cancelli e andartene».

Emanuele, anche i suoi figli faranno questo lavoro?
«Sono ancora ragazzi, vedremo. Quando mio figlio faceva le elementari le maestre chiedevano ai bambini se possedevano degli animali. C’era chi aveva il gatto, chi il cane. “Tu che animali hai?”. “La tigre e l’elefante”, rispose, invidiato da tutti gli altri. Il primo giorno di scuola, poi, fecero cantare ai bambini una canzoncina di benvenuto nella quale si raccontava di un elefante che mangiava una formichina. Mio figlio alzò subito la mano. “Che cosa c’è?”. “Maestra, l’elefante non mangia le formiche, è vegetariano”. Queste cose le ha imparate da piccolo, ma adesso dice di voler fare l’artistico».

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