Adesso va in pensione

Franchino, ovvero l'anima della Mai

Franchino, ovvero l'anima della Mai
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Foto dell'articolo: BergamoPost/Mario Rota.

 

«Odiavo i libri. Andavo male a scuola. In casa dei miei genitori non c’erano libri, solo una di quelle enciclopedie che andavano di moda negli Anni Sessanta. Adesso è come se fossero la mia famiglia. Adesso che me ne devo andare vado nelle sale, nei depositi e mi siedo, rimango da solo. Li saluto. Li conosco tutti, uno per uno». Francesco Albrizio, per tutti Franchino, lascia la biblioteca Angelo Mai dopo quarantuno anni di lavoro.

Quarantuno anni di servizio. Era entrato, nel 1976, con monsignor Luigi Chiodi, il mitico. Poi ha vissuto la direzione di Francesco Barachetti, quella di Giulio Orazio Bravi, infine quella attuale, di Betti Manca. E Betti Manca lo dice chiaramente: «Franchino è quello che conosce meglio la biblioteca, ogni suo mattone, ogni particolare. Quando abbiamo dovuto chiudere per la lesione alla volta del salone Furietti, dopo il terremoto dell’Emilia, Franchino è stato geniale nel calcolare l’ingombro dei libri da portare via e la possibilità di inserirli in una nuova collocazione. I suoi calcoli si erano rivelati precisi al millimetro». Franchino minimizza, dice: «Ho la mentalità dello “scaffalista” della Vègè. Era una catena di minimarket e piccoli supermercati degli Anni Sessanta. Non so se c’è ancora. Quando avevo quattordici anni andai a lavorare al Vègè di Loreto. Era il 1971. Imparai a sistemare le merci negli scaffali. Divise per marche, per tipo, per dimensione. Quella mentalità l’ho portata in biblioteca».

 

 

Il "sistema Franchino". Franchino Albrizio è nato nella caserma Montelungo, il papà era un militare, poi con i genitori si era trasferito a Longuelo. A quattordici anni il lavoro alla Vègè di Loreto, la catena della famiglia Lombardini. Franchino dice di ricordare quando venne inaugurato il monumento al bersagliere: «Il tempo passa troppo in fretta». Franchino è magro, non è alto, dai movimenti svelti, ironico, pronto alla battuta. Racconta: «Quando sono arrivato alla Mai ricordo che c’erano tanti utenti. La biblioteca ha avuto fasi alterne. Da luogo solo di studiosi a punto di incontro di tanti studenti, poi di nuovo posto del silenzio frequentato da ricercatori. A fine Anni Settanta, inizio Ottanta, piovevano tante critiche perché il servizio di ricerca e consegna dei libri era lento. Era ancora il tempo delle schede nei cassettini di legno e non c’erano gli ascensori. E nemmeno i computer. Il commesso prendeva la richiesta dal bibliotecario e poi doveva salire su per le scale oppure scendere, cercare, risalire... Allora ho pensato alla carrucola. Misi un tubo tipo grondaia che dal terrazzo scendeva nel cortile. Prendevamo la scheda di richiesta del lettore e la inserivamo in un cartoncino cilindrico della carta igienica, per proteggerlo. E lo lasciavamo cadere giù. In fondo al tubo c’era una cesta che lo raccoglieva. Per avvisare il commesso che stava sotto, lasciavamo cadere un barattolo vuoto di Coca Cola. Era il segnale: il secondo commesso raccoglieva la scheda dal cartoncino e andava a cercare il volume. Poi tornava, metteva il libro nella seconda cesta che veniva issata con una carrucola. Si risparmiava qualche minuto prezioso. Quando pioveva il sistema andava sospeso: non potevamo bagnare i libri!». Il “Sistema Franchino” andò avanti per quasi vent’anni, fino all’arrivo dell’ascensore.

 

 

Ricordi in divisa blu. In questa mattina di febbraio il fattorino geniale è seduto in uno dei depositi, al piano terreno della biblioteca. Indossa la divisa blu, impeccabile. «Mi chiamavano “Cavallo Pazzo” perché dicevano che non ero prevedibile. Sono arrivato qui quando avevo diciannove anni. La biblioteca era considerata un po’ un reparto punitivo perché rispetto agli uffici comunali aveva orari più scomodi e perché si doveva lavorare di più. Quando sono arrivato c’era monsignor Chiodi, lui era un uomo di grande intelligenza, grande cultura. Era un uomo diretto: se qualcosa non andava bene ti chiamava e ti diceva: “Allora Franchino, si può sapere che cosa è successo?”. Andava dalla persona, non accettava i giudizi, i racconti di seconda mano. Voleva che imparassi a fare il restauratore di libri. All’epoca, qui in biblioteca venivano i restauratori Brena e Valli. Brena era bravissimo. È un peccato che oggi non ci sia più una figura di quel tipo. Non sono diventato un restauratore, ma da Brena ho imparato tanto».

Franchino gira i depositi, sale nella “specola”, la torretta, scende negli interrati. Ogni tanto apre i libri, li annusa; spiega che è per sentire il grado di umidità, se la carta sta bene. Nella chiesetta di San Michele, fra queste torri di libri con un certo orgoglio spiega: «Queste scaffalature alte una dozzina di metri vengono a vederle architetti importanti perché nessuna è appoggiata ai muri della chiesa, sono “autoreggenti”. Con soltanto qualche trave che parte dall’intelaiatura e va a toccare il muro, come un’ulteriore sicurezza. Ma fra scaffalatura e muri c’è un’intercapedine di una sessantina di centimetri».

 

 

Il futuro e l'amore per i libri. Sono passati quarant’anni. Franchino dice che non sa che cosa farà dopo. Come un innamorato respinto. Ma la legge del tempo non si può negare. Ci vorrà un periodo di ripensamento? «So che farò una piccola festa per salutare tutte le persone che in questi anni mi sono state vicine e che voglio ringraziare. Ripenso a quello che ho fatto, a quanto i libri mi hanno dato. Se ci sarà bisogno di me per qualcosa verrò volentieri alla Mai, altrimenti meglio non tornare troppo in questo posto perché tornerei non più da dipendente. È un’altra cosa. Non potrei più fare quello che faccio. Meglio pensare ad altro, meglio andare a sistemare altri archivi, altre biblioteche della città o di altre città. Vedremo».

Franchino non è mai diventato un grande lettore. Dice: «Non leggo tanto. Ma i libri mi parlano lo stesso. Quando prendo la pergamena di Federico Barbarossa, ogni volta è un’emozione. I testi di Alberico da Rosciate. Il libro di Giovannino de’ Grassi. I testi dei Barzizza. Penso ai secoli, penso a quell’uomo che aveva in mano la penna e firmava quel foglio... Loro sono oggetti delicati, da curare. Appartengono ad altre epoche e sono qui, tra noi. Portano il pensiero, le emozioni di altri uomini e questo io lo sento anche se leggo soltanto qualcosa, qua e là. Però... mi viene da dire che si sente l’anima dei libri. Non sono dei mattoni».

 

 

Gli scaffali rivoltati. Franchino non è rimasto soltanto alla biblioteca Mai. Al tempo di Gianni Barachetti, quando venne istituita la rete delle biblioteche rionali, veniva inviato in giro per i quartieri a organizzare le raccolte. Adesso, tanti anni dopo, Franchino Albrizio ci scherza sopra. Ma ne è orgoglioso. E tranquillamente aggiunge che lui la Mai l’ha rivoltata «all’ottanta per cento. Prima era difficile trovare libri, giornali, manoscritti. Magari metà collana dei Meridiani - faccio un esempio - era piazzata nel seminterrato e l’altra metà - perché magari non ci stava - su in cima al palazzo. Un pezzo di donazione stava in un lato e l’altro pezzo su un altro piano. Con la mia mentalità di garzone del Vègè ho cercato di mettere tutto in ordine. Come con la pasta, con i pelati e i detersivi. Le donazioni le abbiamo riunite in ordine alfabetico, l’ordine della scaffalatura è nel senso dell’altezza, i volumi più grandi stanno sotto, i più piccoli in alto, sull’ottavo scaffale. Perché quelli grandi se sali con la scala a prenderli poi rischi di perdere l’equilibrio o di rovinarli... Le novità delle librerie le abbiamo inserite tutte in una sala. Anche i manoscritti li abbiamo organizzati in modo diverso, protetto e più facile da recuperare».

 

 

Intellettuali lavoratori. I magazzini li ha salutati tutti. E li ha ripresi con il cellulare, così nei momenti di nostalgia se li potrà riguardare. «Ho fatto il mio lavoro con coscienza. Ho prestato un giuramento in Comune. Io dico sempre che il mio datore di lavoro sono tutti i cittadini. La cittadinanza di Bergamo, io sono stato un suo dipendente. Qui ci sono custoditi valori immensi: li ho protetti. I direttori che si sono succeduti possono stare tranquilli. Adesso mi viene in mente quando con don Chiodi andavamo a mangiare da Ornella, a mezzogiorno. Era una grande persona. Intelligente e pratico. Anche Orazio Bravi. Una volta è arrivato il sindaco Tentorio, lui era nel salone con la scopa in mano. Io l’ho stimato tanto per questo suo essere intellettuale capace di mettersi sul piano di tutti gli altri dipendenti, anche negli aspetti più umili. E anche la direttrice di adesso è una persona che si dà sempre da fare, non si tira mai indietro. Intellettuali che sanno che cosa è il lavoro, la gavetta. La Mai è fortunata. Il cardinale può essere contento».

Gli insetti e un timore. E poi ci sono gli insetti. Franchino ha catalogato gli insetti della Mai e con l’aiuto di Marco Valle, naturalista del Museo di Scienze, ha realizzato un cartello con gli insetti amici dei libri e con quelli nemici. «Qui ci sono tanti insetti - dice - Alcuni sono da proteggere come lo scorpione e il ragno. Quanti scorpioni che abbiamo qui. Sono da proteggere perché mangiano insetti nemici della carta, terribili come grilli e coleotteri».

Quale sarà il futuro della Mai? «Ho un timore - dice Franchino. - Che diventi un museo. Vorrei che restasse un luogo di cultura, sempre vivo, che i libri continuassero a parlare a generazioni di giovani e adulti. Magari per sempre » .

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