«Esperienza che insegna a vivere»

Frank Ostaseski in quel di Vertova «Non nascondete la morte ai bimbi»

Frank Ostaseski in quel di Vertova «Non nascondete la morte ai bimbi»
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«Una persona unica nel suo genere» mi bisbigliano all’orecchio durante l’incontro. Parla lentamente, con voce controllata, sorride spesso e si sofferma a guardare con i suoi occhi chiarissimi ogni singolo partecipante al seminario. Nella sala ci sono 130 persone. Medici, infermieri, Oss, personale Asa, psicoterapeuti. Ma anche due monaci buddisti e due sacerdoti. Ognuno di loro pende dalle labbra di Frank Ostaseski. Tiene convegni in cliniche e università di Stati Uniti ed Europa. Ha fondato nel 1987 lo Zen Hospice Project, il primo del suo genere negli Usa, e nel 2004 il Metta Institute, per fornire un’educazione alla spiritualità nella morte. Nel 2001 il Dalai Lama ha riconosciuto i suoi anni di servizio compassionevole verso i morenti. Di recente ha pubblicato il bestseller Cinque inviti. Come la morte può insegnarci a vivere pienamente. Ma abbiamo preferito chiederglielo direttamente.

Cosa vuol dire prepararsi adeguatamente alla morte e perché questo ci aiuta a vivere meglio?
«Perché la morte ci mostra cosa è più importante. Chi sta morendo si pone due domande: “Sono amato?”, “Ho amato bene?”. Prepararsi alla morte significa porsi queste domande nel corso della vita, senza aspettare il momento della morte».

C’è una sorta di superstizione per la quale se pensiamo alla morte in qualche modo la avviciniamo a noi. Infatti per noi la morte è sempre quella degli altri...
«In un vecchio testo induista ci si chiede: “Qual è la cosa più stupefacente al mondo?” Il saggio risponde: “La cosa più stupefacente al mondo è che uomini e donne vedono ogni giorno morire qualcuno, ma non pensano mai che questo accadrà anche a loro”. Abbiamo questa idea sbagliata secondo la quale, se pensiamo alla morte, questa avverrà prima del previsto. Quindi non ci pensiamo affatto e questo ci dà l’illusione di una distanza comoda da essa».

 

 

Ma al tempo stesso vogliamo saperne di più.
«Certo. E vogliamo parlarne con chi ne è meno spaventato, per rassicurarci. Le persone ne parlano con me perché capiscono che non sono così spaventato dalla morte».

Lei non ha paura della morte?
«Ce l’ho. Non mi piacciono il dolore, il senso di impotenza, e forse queste cose faranno parte dell’esperienza della mia morte. Ma quello che ho imparato stando accanto ai morenti è che la morte è assolutamente sicura (sorride)».

Eppure noi siamo così terrorizzati dalla morte che spesso non osiamo neanche nominarla.
«In molte culture, come quella colombiana, la morte è una donna. Non è un personaggio spaventoso, ma qualcosa di spirituale, che vuole insegnarci e non minacciarci. Non ho una visione romantica della morte, anzi, è probabilmente l’esperienza più dura della nostra vita e può essere terribile e dolorosa. Ma potrebbe essere anche bella e trasformativa. Soprattutto è ordinaria. Succede a tutti. Nessuno ne esce vivo (sorride di nuovo). Quante volte diciamo: “Questa persona è morta, è così ingiusto”. In realtà è la cosa più giusta, più equa, perché viene per tutti».

Oggi non si va spesso a trovare i morenti o i morti. Soprattutto tendiamo a tenere i bambini lontani dalla vista della morte.
«Io penso che i bambini siano molto curiosi di questo argomento. Una volta gestivo una scuola dell’infanzia, facevamo un gioco, li portavamo nei boschi con il compito di trovare cose morte e ai bambini piaceva molto. Poi li mettevamo sul tavolo e inventavamo storie su questi oggetti. Dobbiamo semplicemente parlare ai bambini in una maniera non spaventosa. Se pensiamo che la morte sia il nemico, è ovvio che si spaventino».

Lei sostiene che la cura dei malati terminali sia indipendente da ogni credo. Lei però è buddhista.
«È vero che la pratica buddhista mi sostiene. Uno degli insegnamenti principali del Buddhismo è l’impermanenza, tutto cambia. Più ci familiarizziamo con questo, più saremo pronti ad affrontare qualunque cambiamento».

 

 

La morte è sofferenza. Ma come possiamo passare dal soffrire per il morente al soffrire con il morente?
«È la differenza tra empatia e compassione. L’empatia è data dall’aver vissuto un’esperienza simile che ci porta a comprendere l’altro. Ma ciò non si tramuta automaticamente in azione. La compassione invece è la volontà di alleviare le sofferenze altrui, che diventa dunque azione. Anche azioni molto semplici, ma è una dimensione più profonda della nostra umanità».

Lei si occupa della formazione di professionisti della sanità. Qualcuno ha definito tutto questo come “poco scientifico”?
«Moltissime volte. La medicina si basa su prove certe. Consapevolezza, compassione, amore non sembrano altrettanto basate su prove certe. Sappiamo però che i pazienti vogliono che l’assistenza medica abbia un volto umano, che non sia solamente un tecnico. Questo significa che questi aspetti sono altrettanto importanti. L’amore non porta via il dolore fisico, ma l’assistenza compiuta con amore è un aiuto».

All’inizio di quest’anno in Italia sono stati riconosciuti ufficialmente i caregiver familiari. Spesso queste persone assistono un parente o una persona cara che si trova al momento del fine vita. Cosa si può fare per dare loro più consapevolezza del loro ruolo?
«Un’ottima domanda! Parliamo spesso di quante persone sono assistite dal sistema sanitario, ma la maggior parte delle cure sono prestate in casa, dai familiari. Fanno tantissimo e non hanno ricevuto nessuna formazione. Questo mi fa pensare che sappiamo più di quanto immaginiamo. Dobbiamo rendere onore al contributo dei familiari, è essenziale. I medici non sono in grado di fare ciò che la famiglia può fare per il morente: c’è bisogno di entrambi».

È la terza volta che interviene alla Fondazione Cardinal Gusmini di Vertova. Come si è trovato? «Innanzitutto Vertova è un posto meraviglioso. La natura e le montagne, in un certo senso, ti sostengono. E ho la sensazione che qui le persone abbiano una sorta di tranquillità, semplicità. Sono riservate ma anche estremamente gentili. Sono molto impressionato. Ho imparato tanto su cosa succede alle persone che vivono a lungo nello stesso posto: l’ambiente ha un effetto sul loro carattere, sono costanti. Sono davvero riconoscente del fatto che mi abbiano invitato qui» (sorride ancora).

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