Vivevano in via Baracca

La Bergamo anni '50 di Gustavsson Dal Mondiale di Pelé alla Dea

La Bergamo anni '50 di Gustavsson Dal Mondiale di Pelé alla Dea
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C'è un punto, nella carriera di qualsiasi calciatore, oltre il quale non si può andare e chiunque abbia avuto la fortuna di raggiungerlo, e al mondo ce ne sono stati più o meno 400, probabilmente si è portato questo ricordo per sempre. Il fatto è che quando Bengt Gustavsson, 87 anni e 145 partite con la Dea, è di fronte alle foto che lo ritraggono con Pelé e Josè Altafini al Rasunda di Stoccolma nel 2012, poco prima che venisse demolito, non può tornare indietro con la memoria all'estate del 1958, quando in quello stesso stadio giocò la finale dei campionati del mondo. Il morbo di Alzheimer glielo impedisce, allora è la moglie Birgit che prende la parola e racconta della Bergamo degli anni Cinquanta e dell'esperienza, piuttosto insolita, di essere la moglie di un calciatore straniero in Italia.

 

[La formazione della Svezia ai Mondiali del '58: Gustavsson è il quarto in piedi da sinistra]

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L'incontro «L'ho visto per la prima volta in un bar a Norrköping, lui era in servizio con la polizia e si era fermato per prendere un caffè», racconta Birgit, che si sarebbe sposata con il difensore svedese nel 1958. E continua: «Durante i suoi primi due anni all'Atalanta non eravamo sposati e i miei genitori non mi davano il permesso di andare in Italia, così ci vedevamo solo durante le vacanze». E cosa faceva da solo a Bergamo? «Condivideva l'appartamento, prima con Adriano Bassetto, poi con Franco Janich. Con Franco siamo ancora in contatto, Bengt gli faceva da chioccia quando era appena arrivato».

 

[Dall'album di casa Gustavsson, le foto del raduno nel 2012 degli ex-giocatori della nazionale svedese. Con loro, Pelé]

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Ambientarsi a Bergamo E chi faceva da chioccia a Bengt? Dopo essere stato il miglior giocatore di Svezia con l'IFK Norrköping e aver rischiato la vita dopo una tournèe in Spagna (l'aereo su cui viaggiavano fece un atterraggio di emergenza sulle spiagge della Biscaglia), viene notato da Nils Liedholm che lo segnala all'Atalanta, lo accompagna a Bergamo e lo introduce alla vita italiana, solo che, a un certo punto, il Barone deve rientrare a Milano e lascia Gustavsson nelle mani di sé stesso. «Andò al ristorante da solo, non sapeva una parola d'Italiano», racconta Birgit ridendo. «Sceglie un piatto a caso, qualcosa che in Italia è piuttosto comune, ma che in Svezia non avevamo mai pensato di combinare: prosciutto e melone». A quasi 60 anni di distanza, le differenze culturali fra i due Paesi dovevano essere davvero profonde e se è vero che oggi i giovani italiani e svedesi ascoltano la stessa musica e guardano gli stessi film, all'epoca non poteva essere altrettanto. E allora come ci si organizza? «Bengt aveva i suoi compagni di squadra, per me era un po' più complicato perchè non conoscevo nessuno, così andavo al cinema, guardavo la televisione, leggevo i giornali. Poi mi presentarono una famiglia, gli Albani: erano stati a Västerås qualche anno per lavoro, mi insegnarono le parole più importanti traducendole dallo svedese».

 

[Gustavsson, oggi, assieme alla moglie]

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Donna al volante E per il resto, l'impatto com'era? «In Svezia Bengt non era professionista, aveva il suo lavoro e la gente raramente lo fermava per strada, mentre a Bergamo succedeva di continuo». Birgit, che aveva dovuto interrompere la sua attività di insegnante per riprenderla al ritorno in patria dovette fare i conti con l'essere una donna emancipata con qualche decennio di anticipo rispetto al trend italiano: «Avevamo un'Alfa Romeo e mi piaceva guidarla, mio papà credeva che le donne dovessero saper fare le stesse cose degli uomini e così mi aiutò a prendere la patente, in Italia era molto raro per una donna». Non era così difficile, invece, parlare con la gente: «In Svezia fra sconosciuti ci si parla solo da ubriachi, in Italia invece capitava di continuo, tra l'altro era raro vedere persone bere così pesantemente, era piacevole poter girare così in tranquillità». Via Francesco Baracca 9 la loro casa fino al 1961: «Veniva una signora anziana a farci le pulizie, si chiamava Guglielmina Erbi e parlava solo bergamasco. Capivo solo quando diceva che stava per piovere».

 

[La firma del contratto: Gustavsson diventa un giocatore dell'Atalanta]

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La finale del 1958 e il ritorno a casa «Ero allo stadio, fu una bellissima partita e non eravamo così dispiaciuti che il Brasile avesse vinto, erano molto forti e molto generosi, a fine partita sventolarono la bandiera svedese», questi i ricordi di casa Gustavsson della finale dei Mondiali del '58. E poi c'era Pelè: «Un'ottima persona, lo abbiamo incontrato altre tre o quattro volte». Nel 1961 i Gustavsson tornano in Svezia: il calcio italiano sta diventando troppo pesante da sostenere, con ritiri estenuanti che si prolungano per tutta la settimana. «Volevamo stare con i nostri figli, Anders e Karin, che era appena nata proprio a Bergamo».

 

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Dalla panchina al golf. Bengt Gustavsson chiude la carriera dopo un infortunio nell'Åtvidaberg e diventa responsabile della sicurezza per una società locale, ma non abbandona il calcio: guiderà il club come allenatore e farà altrettanto con Norrköping, Öster e Hammarby. Poi comincia col golf: «Si appassionò appena finita la carriera di allenatore. Avevamo molti amici che ci giocavano e così abbiamo viaggiato spesso. Era bello poterlo fare assieme, visto che da calciatore lui è stato ovunque, perfino in Africa e in Sud America, e io non l'ho mai accompagnato».

 

 

La malattia Nel 1999, Birgit si accorge che qualcosa non funziona. Come spesso succede, sono piccoli gesti della vita quotidiana a rivelare la malattia. «Si dimenticava dove aveva messo i vestiti, oppure le chiavi. Era un po' irritante, io pensavo fosse solo sbadato e magari litigavamo». Ma un giorno sbaglia strada per tornare a casa: «Ci misi molto a convincerlo a farsi visitare, poi una dottoressa dell'ospedale di Linköping si guadagnò la sua fiducia e, dopo averlo visitato ci diede il responso: Alzheimer». La malattia, però, non impedisce alla coppia di continuare la propria vita e cercare di risalire alle cause: «Sette giocatori su undici del Norrköping degli anni Cinquanta hanno avuto la stessa malattia e molti calciatori sono morti per questo. All'epoca si faceva poca attenzione ai colpi subiti. Facevano contare i calciatori fino a dieci e poi li rimandavano in campo. Una volta, a Mosca, Bengt rimase fuori dal campo per mezz'ora dopo un colpo alla testa e rientrò perchè non si potevano fare sostituzioni. E poi immagino che anche colpire continuamente di testa i palloni dell'epoca, pesanti com'erano, non abbia aiutato». Eppure adesso c'è prevenzione: «All'IFK Norrköping hanno utilizzato per primi il recupero post trauma cerebrale». Alla residenza dove soggiorna, Bengt è felice della visita a sorpresa. La finale del 1958 non la ricorda, ma quando sente parlare in Italiano, dimostra di non aver lasciato da parte i cinque anni bergamaschi. E il calcio di oggi? «È troppo noioso, non mi piace».

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