Un atleta come si deve

Simone, l'umiltà su due ruote «La vera fatica la fa mio padre»

Simone, l'umiltà su due ruote «La vera fatica la fa mio padre»
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«Scusi». Sì? «Può mettere anche il nome di Alice?». E chi è? «La mia ragazza. Sa quanti sacrifici sto facendo. Va in bici anche lei, ci siamo conosciuti alle corse. Quando c’è da stare in casa si sta in casa, lo sa. Anche questo aiuta». Il ciclismo è una grande famiglia. Ma quella di Simone Consonni è un po’ più allargata. C’è Chiara, la sorella, che corre e vince nelle categorie giovanili. La sua ex squadra, il Team Colpack: l’ultimo giorno il presidente ha abbracciato Simone più forte che poteva e quasi gli veniva da piangere. E adesso c’è questa squadra con un nome esotico come la sabbia, il Team UAE Abu Dhabi, la società con cui Consonni è passato professionista. Ha già fatto un secondo posto ai Mondiali U23, ha partecipato agli ultimi Giochi di Rio, è una delle scommesse del ciclismo made in italy, va forte in pista e anche su strada. Simone è il nuovo che sta avanzando.

 

#SimoneConsonni thanks experienced rider #MatteoBono for the cycling suggestions @TeamUAEAbuDhabi @dubaitour

Pubblicato da UAE Abu Dhabi su Martedì 31 gennaio 2017

 

In Qatar per la prima corsa dell’anno, l’Abu Dhabi Tour, racconta Simone che l’esordio è stato «bello, emozionante, alla partenza un po’ questa cosa l’ho sentita». Ma la stagione è lunga, è appena iniziata. Eccoci qui. Penserete, un altro che adesso si sente in diritto di sentirsi arrivato. Ma se dite così è solo perché non conoscete bene i corridori. «Obiettivi? Ma va, non scherziamo. A livello di risultati non ne ho nemmeno uno. Mi sento addosso la stessa mentalità di quando sono passato alla Colpack. Il primo anno volevo dare il centodieci per cento per i miei compagni, volevo mettermi a disposizione totalmente e non cercare il risultato personale. Poi se ci saranno occasioni, ovvio, non mi tirerò indietro. Io sono uno che guarda in faccia la realtà, so che c’è tanta strada da fare. Prima aiutare i compagni, poi tutto il resto».

Incredibile: a ventidue anni Consonni parla proprio come dovrebbe fare uno a ventidue anni, con la gavetta da consumare, i compagni da rispettare, i sacrifici da fare e la fatica da sentire. Ah, sì: la fatica, com’è? «Fate domande un po’… boh. La fatica non la faccio io, la fa mio papà Corrado che si alza la mattina alle 7 e torna alle 8 la sera. Fa il falegname». E poi c’è mamma Michela, casalinga, ma quando serve, via di olio di gomito e pulizie. «Loro mi sono sempre stati vicino e mi aiutano ogni giorno senza stressarmi». No stress. Ma questo giovanotto di Ponte San Pietro con un’ancora tatuata sul braccio e la lingua svelta, poi, da dove salta fuori? «Papà giocava a calcio ma aveva un amico che portava i figli al palazzetto a Brembate, in pista. Avevo sei anni. È iniziata lì. Però di questo sport mi sono innamorato piano piano».

 

 

I passi da gigante li ha fatti lo stesso: l’Olimpiade di Rio con il quartetto in pista dove la mettiamo?
«È stata una delle emozioni più forti della mia vita. Esperienza assurda. Solo quando siamo tornati ci siamo resi conto di cosa avevamo fatto. Abbiamo anche rischiato di arrivare in finale per il bronzo».

Aspetti. Parta dall’inizio.
«Io e Filippo Ganna eravamo in montagna a fare un po’ di recupero. Insomma, squilla il telefono ed è il ct Marco Villa. La sera prima avevo corso, poi eravamo usciti a bere qualcosa e sì, va beh, eravamo tornati tardi. Mi dice: “Come state?“. Bene, faccio io. “Riuscite a fare un quartetto?”. Se c’è bisogno lo facciamo. Pensavo a una corsa in Francia. Poi Marco dice l’Olimpiade…».

E poi?
«Una botta. Emozione. Ho anche iniziato a piangere e ho fatto parlare Filippo. “Filo, parlaci tu”, gli ho detto. Avevo già fatto gli esami a Roma, ero la riserva di Elia Viviani».

Cosa si è portato via da Rio?
«È stata una cosa grande. La conservo. Ma bisogna lavorare sempre tanto».

Diceva di Viviani. Chi è per lei?
«È una persona molto speciale per me. Un ragazzo con cui ho passato tanto tempo. Lui ci ha fatto vedere che si possono fare strada e pista insieme e a livelli molto alti».

Le ha insegnato qualcosa?
«Lui fa della cura del dettaglio il suo punto forte. Minuzioso al massimo. Ho visto come lavora in pista, so come lavora su strada. La determinazione, questa cosa cerco di impararla».

Ora è in strada con il Team Uae Abu Dhabi, com’è stato questo esordio?
«Qui ci sono i velocisti più forti ed è diversa anche l’impostazione della corsa. Gli ultimi chilometri si fanno a una velocità davvero sostenuta».

 

 

È questo il suo destino?
«Io davvero ancora non lo so. Ho sempre fatto tutto a piccoli passi: nella juniores volevo entrare in una bella squadra di dilettanti; al primo anno di dilettanti volevo vincere le mie volatine; dal secondo volevo vincere qualche gara internazionale e ho fatto secondo al Mondiale. Insomma, non ho vissuto l’assillo di passare professionista. Anche ora la vivo in maniera tranquilla. Il presente è quello che conta».

Ma i giovani come lei sono il futuro di questo sport…
«Qui di giovani ce ne sono sette, il ricambio c’è. Ma certo i sacrifici bisogna farli».

Non sente una responsabilità? Gli ultimi anni li abbiamo vissuti sulle glorie di Aru e Nibali. Serve di più.
«Nessuna pressione. Penso ci siano corridori italiani molto forti e la vittoria all’Olimpiade di Viviani ne è la prova. Ulissi, Modolo: hanno fatto e stanno facendo una grande carriera, tra un paio d’anni magari toccherà a noi. Ora spero solo di riuscire a portare qualche mio capitano in fondo alle corse».

Ci vuole umiltà?
«Vedo i ragazzini di oggi delle categorie giovanile che sembrano già pronti per fare i professionisti. Non fa bene al movimento, a noi ragazzi. A sei, sette anni hanno già la bici in carbonio, il casco da trecento euro. È una cosa che rovina perché mette l’ansia di vincere nelle categorie giovanili. La realtà è che se anche fai podio al Mondiale Under23 può non servire a nulla».

Parlava di corse: ce n’è una perfetta a cui sogna di partecipare?
«Mi sarebbe piaciuto fare il Giro d’Italia con le tre tappe a Bergamo. Ma è meglio non farlo per il bene della mia crescita. È una corsa dura, rischi di farti male».

È molto legato a Bergamo?
«Sono legato alla mia città, alla mia famiglia. Mi alleno con i ragazzi della Colpack quando posso. Faccio uno squillo e mi trovo con loro».

Invece una corsa che le piacerebbe vincere?
«Il massimo sarebbe la Sanremo. È la classica che vorrei vincere » .

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