Speranza e coraggio

Marco, il viaggio di un trapiantato «A Santiago, fino al traguardo»

Marco, il viaggio di un trapiantato «A Santiago, fino al traguardo»
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Fare a piedi l’intero percorso del cammino di Santiago di Compostela per festeggiare i venticinque anni della sua seconda vita. Per celebrare quella rinascita che lo ha reso paladino del messaggio «Anche dopo un trapianto si può». Per portare in giro la bandiera dell’Aido e trasmettere l’importanza della donazione. Questo è quanto si è prefisso Marco Minali che racconta cosa lo aspetta da qui al prossimo 8 giugno. Cosa infila nello zaino e quanto è importante saper viaggiare leggeri. Portandosi dietro però tante piccole e grandi speranze. Perché quelle non pesano.

«Questo è il mio quarto viaggio sul cammino di Santiago – spiega Marco –. Però, questa volta copro l’intero percorso. Nelle precedenti tre “passeggiate” – come le chiamo io – l’ho fatto a spizzichi e bocconi. Nel senso che una volta ho fatto il percorso di una settimana, un’altra volta quello di tre settimane, quindi diversi pezzettini. Ma questa volta voglio farlo tutto. Lo scopo principale è, ovviamente, una cosa mia personale, legata soprattutto al fatto che quest’anno festeggio il venticinquesimo del mio secondo compleanno. Perché io sono nato due volte. La prima quando sono venuto al mondo, e la seconda quando sono stato trapiantato e mi è stata donata la possibilità di ricominciare un’altra vita. Già questa sarebbe un’ottima ragione per festeggiare, ma la motivazione che mi spinge a fare questa esperienza è anche quella di voler dimostrare che, con un trapianto, si può veramente rimpossessarsi della propria vita, poter fare tutto, e forse anche più, di ciò che farebbe una persona normale. Ci tengo a sottolineare questo aspetto, questa possibilità di offrire nuove opportunità alla vita. Sono presidente dell’Aido di Treviolo e mi sta particolarmente a cuore che arrivi questo messaggio.

 

 

Sono in viaggio dal 4 maggio e rientrerò l’8 giugno, giusto in tempo per Treviva. Ci metterò qualche giorno in più rispetto al tempo previsto, perché voglio fare le cose con calma. I chilometri da percorrere sono quasi mille. Partirò da Saint-Jean Pied de Port, sul confine dei Pirenei, arriverò lì con un volo su Lourdes, da dove un pullman comunitario ci accompagnerà in questo paesino sui Pirenei. Il giorno dopo comincerà l’avventura, con tappe di 20-30 chilometri tutti i giorni, con sole, pioggia, neve e tempesta. Dovrò per forza percorrerli se voglio mantenere la mia scaletta e arrivare a Santiago de Compostela nel giorno previsto. Poi, da Santiago, arriverò a Finisterre, cioè alla fine della terra, all’oceano. Nel medioevo si credeva che il mondo finisse lì, dato che non si pensava che la terra fosse rotonda – prosegue Minali –. Una volta arrivati all’oceano i pellegrini si lavavano per purificarsi, lanciavano il messaggio nella bottiglia che avevano preparato durante il pellegrinaggio e raccoglievano il simbolo, che era la conchiglia. Ma la raccoglievano dall’oceano per testimoniare, al loro ritorno in patria, che effettivamente erano stati alla fine della terra».

Affronti questo viaggio da solo o in compagnia?
«Da solo. Ma la cosa non mi preoccupa affatto, perché ci sono tante persone che fanno questo percorso. Un po’ perché è diventato di moda e un po’ per il piacere di fare questo cammino lento. Quindi c’è sempre tanto movimento e tanta gente su quella via».

 

 

E i bagagli?
(Ride, ndr) «Zaino in spalla con il minimo necessario, questo sarà il mio bagaglio per più di un mese. Lascio a casa tutto tranne le medicine, perché quelle per me sono fondamentali. Per stare via un mese mi sono attrezzato con una piccola borsetta termica, nella quale porterò i miei salvavita che devo prendere al mattino e alla sera. Queste sono le uniche cose che non posso lasciare a casa. Non solo! Devo trattarle bene, se non voglio tornare in Italia perché ho rovinato le pastiglie o perché le ho perse. Per il resto, sono abituato ad avere uno zaino di sette chili con dentro veramente pochissime cose. Anche perché i vestiti si lavano e si fanno asciugare ogni giorno, quando si arriva alla fine della tappa. Lì ci si riposa e il giorno dopo si riparte, di nuovo carichi per affrontare le 6-7 ore di cammino. Le giornate si svolgono così: si parte la mattina all’alba, quando c’è un po’ più fresco, e il primo pomeriggio si arriva in queste strutture chiamate “albergues”, dove vengono ospitati i pellegrini. Ce ne sono diverse lungo il sentiero: se c’è posto mi fermo, se non c’è posto passo a quella successiva. Nel mio viaggio non c’è nulla di prenotato, tranne la prima notte».

Come ci si prepara per un viaggio come questo?
«Faccio parecchie camminate, perché lungo il cammino si possono rovinare i piedi, possono venire fiacche e tendiniti e, se il corpo non è allenato, il rischio è maggiore. Essendo trapiantato, sono ancora più a rischio. Ma oltre a questa esigenza c’è anche il bello di camminare da soli nella natura. Quando si parla di viaggi come questi, ogni pellegrino ha nel suo zainetto la propria motivazione. C’è chi lo fa per sport, chi lo fa per mettersi alla prova, chi per pellegrinaggio: quest’ultima è l’opzione più gettonata, anche perché, lungo il cammino, ci sono tante chiese».

 

 

Qualche curiosità?
«Di particolare c’è questo famoso passaporto, sul quale si fanno tanti timbri, uno per ogni tappa che si raggiunge. Alla fine del percorso arriverò ad averne 30-40; quando tornerò in Italia, mi ricorderanno dove sono stato. Inoltre, quando arrivi a Santiago, se non hai questo passaporto non ti danno la famosa Compostela, un documento in latino che certifica che hai fatto questo cammino a piedi e sei arrivato a Santiago, toccando tutte le tappe».

Sarà senza dubbio un’importante lezione di vita.
«Sì, per capirne la portata, bisogna farla. Provare magari da soli. Io la faccio perché mi fa stare bene, perché quando fai tanti chilometri senza pensare ai tuoi problemi, al lavoro, alle difficoltà della vita, riesci veramente a resettare. E quando arrivi, ti rendi conto che le cose più importanti sono veramente altre rispetto alle priorità che avevi prima di partire. Spesso ci si lamenta di cose futili e inutili. Quando penso che sto via per più di un mese con uno zainetto, e mi basta per vivere, mi domando quante necessità inutili abbiamo introdotto nelle nostre vite. Ma alla fine non servono. Io parto con tre magliette, due pantaloncini, l’intimo, una felpa e le infradito. E non mi serve altro. Per dormire trovo, se non a pagamento, a donativo. È una formula molto diffusa nelle tappe di questo pellegrinaggio e consiste nel fatto che, se ho soldi e voglia di pagare, pago. Se non ho soldi, posso anche non pagare. È il concetto di ospitalità nel suo senso più profondo».

 

 

Quali sono le strutture che applicano questa formula?
«Possono essere conventi o chiese, all’interno dei quali ci sono dei volontari che ti ospitano. Lungo il percorso c’è un bellissimo albergues che si chiama San Nicolas dove si dorme in una chiesetta sconsacrata medioevale. La sera ti fanno anche il lavaggio dei piedi e tu paghi a donativo. All’interno di queste strutture il costo medio va dai 6 ai 10 euro per pernottare e farsi la doccia, mentre nelle strutture donative dai quello che ritieni giusto dare. In entrambi i casi ricevi ospitalità, aiuto per cucinare e conosci tantissima gente da tutto il mondo, dal Sud America, dall’Australia, dalla Corea e dagli Stati Uniti. Tutte persone che sono lì a condividere il bello della vita. Io poi, che ho avuto una seconda opportunità di vivere con il trapianto, posso celebrare la vita doppiamente. Quando faccio le serate con l’Aido cerco di spiegare cosa vuol dire vivere da trapiantato. Se 25 anni fa chi mi ha donato il rene non avesse fatto un scelta a favore della donazione io, probabilmente, non sarei qui adesso a preparare questa avventura. La mia vita sarebbe stata completamente diversa e quindi il messaggio più bello è proprio quello di dire che io, grazie a un trapianto, ho potuto vivere e posso fare anche questa cosa di arrivare a piedi a Santiago di Compostela».

Qualche oggetto simbolico?
«Lungo il cammino ho una bandiera con due simboli, quello dell’Aido e quello dell’Aned, che è l’Associazione Nazionale Emodializzati, con la quale collaboro. Cerco di fare fotografie e le pubblicherò sulla mia pagina Facebook A piedi sogno di un Trapiantato, per promuovere la donazione. Insieme a questa bandiera porto una piccola bottiglietta, all’interno della quale saranno inserite preghiere o racconti di persone che hanno necessità o che vogliono portare il loro messaggio fino a Santiago. Faccio questo cammino anche per loro. Sono persone in attesa di trapianto o dializzate che, metaforicamente, sono con me. Oltre alla bottiglietta ho la casetta della casa di Leo, di cui sono volontario. Ho recuperato una casetta di legno che appenderò sullo zaino, quindi anche la Casa di Leo sarà con me in cammino».

Come vanno le iscrizioni in paese?
«Treviolo è il primo, a livello bergamasco, nell’iniziativa “Una scelta in comune”. Da cinque anni andiamo nelle scuole e siamo molto attivi sul territorio anche grazie all’amministrazione comunale. Con questo viaggio, che vuol essere un inno alla vita, voglio sottolineare e rimarcare ancora una volta l’importanza fondamentale della donazione».

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