A lieto fine

Maria Mercedes, l'incredibile storia dal Perù a Mozzo e ritorno

Maria Mercedes, l'incredibile storia dal Perù a Mozzo e ritorno
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In copertina, Maria Mercedes con la famiglia del Perù nel loro piccolo paese sulle Ande.

 

«L’ho vista prima da lontano ed è stato molto strano perché il viso era quello della foto che avevo in mente, era uguale. Mi è venuta incontro correndo e mi ha abbracciato. È stato un bel momento. Piangevamo tutti, anche il cugino che ci aveva accompagnato. La mamma continuava dire: “Grazie a Dio, grazie a dio, ho pregato tanto”».

Ventisette anni prima. Un ragazzo e una ragazza di diciotto anni, poverissimi, vivevano in una catapecchia in un paesino sperduto del Perù. Erano sposati da poco, sulle spalle avevano già due figli che a fatica riuscivano a nutrire. Lei era ancora incinta e sapeva che nelle loro condizioni i bambini piccoli potevano morire. Non è l’inizio di un romanzo, ma la situazione in cui si trovavano Inocencia e Florentino, genitori naturali di Maria Mercedes. Adesso, ventisette anni dopo, Maria vive a Mozzo, ha un diploma scientifico e una laurea specialistica in Scienze alimentari. Ha un fidanzato, molti amici, una famiglia che la ama e che non le fa mancare nulla. Siamo amiche da molti anni, ma non le avevo mai chiesto della sua famiglia di origine, e d’altronde lei non me ne aveva mai parlato. Adesso, invece, me ne parla serenamente, col sorriso sulle labbra, davanti a una tazza di tè. Complice è stato il suo primo viaggio in Perù la scorsa estate, insieme al suo fidanzato Michele.

 

Il papà adottivo, Fulvio Zonca, con in braccio il primo figlio, Michele,
durante il viaggio in Perù per andare a prendere Maria.

 

Hai sempre avuto la consapevolezza di essere stata adottata?
«Si, non c’è stato un giorno preciso in cui me lo hanno detto, l’ho sempre saputo. Al di là delle differenze fisiche, i miei genitori mi hanno sempre raccontato, come se fosse una storia, che sono nata in un Paese lontano e guardavamo insieme il Perù sulla cartina. Mi dicevano che ero arrivata fino a qui con l’aereo insieme a loro e al loro primo figlio, mio fratello Michele. Mi erano venuti a prendere. Michele non aveva neanche due anni e non avrebbero potuto lasciarlo a Bergamo per due mesi (a questo punto si ferma e ride, ndr). È stato un viaggio istruttivo anche per lui, perché i miei genitori gli hanno detto che sull’aereo non c’era il posto per i pannolini e che non sarebbero potuti partire se lui non iniziava a usare il vasino. Così lui ha finalmente imparato».

Perché hanno deciso di adottarti anche se avevano già un figlio?
«Mio papà Fulvio ha sempre avuto il sogno di adottare un bambino solo per il piacere di aiutare gli altri. Poi ha conosciuto mia mamma e anche lei era d’accordo. Così, ancora prima di provare ad avere un figlio loro, hanno iniziato a informarsi sulle pratiche per l’adozione. E hanno fatto bene, perché l’iter è durato sei anni e nel frattempo hanno avuto Michele. Non è stato un percorso facile, hanno anche dovuto incontrare molti psicologi per verificare che volessero veramente adottare un bambino. L’unica richiesta che hanno avanzato era quella che il bambino fosse più piccolo di Michele, così che il primo figlio rimanesse il più grandicello. Non hanno invece espresso preferenza sul genere».

Nella tua vita avevi mai pensato di andare in Perù a cercare la tua famiglia naturale?
«Tutti mi hanno sempre chiesto se volevo cercarli. Ovviamente ci avevo pensato, ma io stavo bene con tutte le risposte che già avevo, perché i miei genitori mi hanno sempre raccontato tutto. Mi hanno sempre detto che i miei genitori naturali erano molto giovani e molto poveri e non potevano permettersi un altro figlio, ma che mi hanno dato in adozione a malincuore, che erano dispiaciuti e tristi e che non era stato facile per loro. Avevo anche una fotografia dell’incontro tra i miei genitori naturali e quelli adottivi, e mi avevano anche insegnato i loro nomi. Io, però, con il passare del tempo, ho dimenticato molte di queste cose, sia involontariamente, ma forse anche volontariamente. Le ho proprio rimosse perché per un bambino sono problemi difficili a cui pensare, soprattutto quello di avere due mamme. Infatti nella mia testa mi ero convinta di non andare mai a cercarli perché stavo bene qui e non avevo bisogno di altro. Sapevo che l’avevano fatto per il mio bene, ero contenta, grazie e arrivederci» (ride, ndr).

Perché allora hai deciso di andare in Perù l’estate scorsa?
«Al di là della famiglia sono sempre stata curiosa delle mie origini, della cultura, dei paesaggi, di vedere dove sarei potuta crescere. Però è un viaggio costoso e che richiede molto tempo, quindi dopo la laurea mi sono detta: o adesso o mai più. I miei amici come regalo di laurea hanno contribuito economicamente al viaggio e quindi sono riuscita a partire anche grazie a loro. Era strano essere lì perché da un lato ho sentito una sensazione di appartenenza vedendo le ragazze dai tratti simili ai miei e la bassa statura, ma dall’altro ho avvertito un forte distacco, sia per la lingua che non conosco bene, sia per le usanze diverse, per i miei capelli che sono a caschetto, mentre lì le donne li portano rigorosamente lunghissimi come simbolo di femminilità. E poi c’era Michele, il mio ragazzo, che è alto due metri e lo guardavano tutti strabiliati».

 

Maria e il fidanzato Michele il giorno della laurea.

 

Prima di partire non avevi ancora in mente di andare a cercare i tuoi genitori naturali?
«No: anche se tutti i parenti mi chiedevano se sarei andata, io rispondevo sempre decisa e convinta, no. Non avevo quasi pensato a questa possibilità».

E perché hai cambiato idea?
«Già all’inizio del viaggio Michele mi diceva di non arrabbiarmi se mi avesse chiesto qualcosa riguardo alla mia famiglia e alle mie intenzioni di andarli a trovare o meno. E io già lì mi ero arrabbiata (ride, ndr). Invece poi, arrivata là, ho incontrato varie persone, soprattutto donne che viaggiavano da sole perché il marito era morto o avevano divorziato. In particolare una signora mi ha parlato della sua vita, di come aveva perso suo marito due anni prima, dopo otto anni di malattia. Non avevano più voluto avere figli e lei è rimasta sola. Poi mi ha chiesto di me e si domandava perché non andassi a incontrare i miei genitori naturali. Mi ha detto che per una madre il figlio sarà sempre nel suo cuore, che di sicuro vorrà vedermi, che si sarà chiesta spesso di me. Mi ha detto che senza dubbio le avrei fatto un grande regalo. Quindi lì ho iniziato a pensare che forse dovevo farlo per loro, oltre che per me».

Come è avvenuto l’incontro?
«Io conoscevo il nome del paese dove sono nata, Pisac, vicino a Cuzco. Pisac è un centro abbastanza turistico perché c’è un grande mercato, quindi, a prescindere dall’incontro con la mia famiglia, sarebbe stato bello andarci. Insomma, avessi cambiato idea a l l’ultimo non sarebbe stata una giornata “sprecata”. Io fino alla sera prima non avevo deciso. Poi la notte ho scritto a mia mamma Elisa in Italia e le ho chiesto che cosa avrebbe fatto lei al mio posto. Mi ha risposto senza esitazioni: “Se fossi in te, lo farei”. Allora con la benedizione della mamma mi sono definitivamente convinta. Senza non sarei andata. Poi la mattina ho voluto comunque temporeggiare perché già appena sveglia ero molto agitata. Una volta arrivati nel paese, l’agitazione è aumentata perché ogni persona che incontravo mi chiedevo se quello fosse un mio parente. Cercavo somiglianze ovunque. Per calmarmi abbiamo fatto compere al mercato e dopo due ore abbiamo finalmente iniziato la ricerca. Mia mamma, nel frattempo, mi ha inviato il documento di nascita dove erano scritti tutti i nomi, perché in Perù hanno tutti due nomi e tre cognomi e se gli avessi dato solo un nome non si sarebbe arrivati a niente.

Col nome completo, quindi, siamo andati in giro per le bancarelle a chiedere e con mio grande stupore ho capito che qualcuno li conosceva. Infatti, già dopo dieci minuti, il proprietario di una bancarella mi ha detto di essere il cugino della mamma. All’inizio lui era diffidente, perché vedeva Michele e pensava che volesse vendergli qualcosa. Allora Michele gli ha spiegato che ero la figlia e che ero stata adottata. Lui non sapeva nulla di questa storia ed è rimasto incredulo. Già lì io mi sono messa a piangere. Il cugino, anche lui emozionato, si è messo subito a fare delle chiamate, ha lasciato la sua bancarella e ci ha accompagnati in mototaxi (ovvero delle carrette con il tetto, che però sono a misura di peruviano, quindi Michele ci stava a malapena), perché la mia famiglia vive fuori città e se non c’è nessuno che li conosce non si può andare là. Inoltre non ci sono i numeri e le vie, quindi da soli non potevamo trovarli.

 

Maria, ventisette anni dopo l'adozione, nello stesso punto in cui il padre si fece scattare la foto, a Cuzco.

 

A un certo punto, il cugino si ferma e ci indica una signora anziana con le trecce lunghe e nere che camminava: “Quella lì è tua nonna”, mi ha detto. Una guida ci aveva spiegato che i discendenti puri degli Incas, quelli non mischiati con gli spagnoli, non hanno neanche a cent’anni un solo capello bianco. Mia mamma li ha tutti neri, ma mio papà no, quindi io sono “contaminata”. Siamo scesi dalle moto e il cugino ha detto alla nonna: “Questa è tua nipote, quella che hanno adottato”. Lei subito mi ha preso e mi ha abbracciato a lungo, non mi lasciava più, continuava a guardarmi e ad accarezzarmi la faccia, mi stringeva fin quasi a soffocarmi. Io piangevo. La nonna voleva portarmi subito a casa, ma poi ha detto che sarebbe andata lei a chiamare mamma Inocencia. Si è messa a correre e per fortuna la casa era li vicino. Tutte le case di un villaggio, infatti, sono di una sola famiglia».

Era arrivato il momento...
«L’ho vista prima da lontano ed è stato molto strano perché il viso era quello della foto che avevo in mente, era uguale. Mi è venuta incontro correndo e mi ha abbracciato. Piangevamo tutti, anche il cugino che ci aveva accompagnato. La mamma continuava dire: “Grazie a Dio, grazie a Dio, ho pregato tanto”. Diceva che proprio il giorno prima aveva pregato e chiesto al Signore di me e lui l’aveva ascoltata. Poi siamo andati nella casina e lì hanno cercato di contattare il papà che era in città per lavoro. Lui è tornato e si sono messi ancora tutti a piangere. Io pensavo di aver esaurito tutte le lacrime e invece quando l’ho visto non ho resistito, anche perché la prima cosa che mi ha detto tra le lacrime è stata: “Scusa”. Poi mi hanno raccontato tutta la vicenda dell’adozione, anche se purtroppo ho capito poco, perché già io non parlo bene lo spagnolo e in più il loro non è spagnolo puro, ma metà spagnolo metà lingua Incas.

Io ho capito che in quegli anni non sono stata l’unica bambina a essere data in adozione, ma che altre famiglie avevano preso quella decisione. In più c’erano le associazioni che promuovevano l’adozione dicendo che era gratuita e che se avessero scelto questa strada la mamma avrebbe partorito al sicuro in ospedale e i bambini avrebbero avuto una vita migliore. I miei genitori, visto che avevano un’educazione cristiana molto forte, ci hanno creduto, volevano fare un’opera di bene, anche se la mamma non è mai stata convinta. Quando hanno iniziato a diffondersi notizie di traffici di bambini si sono pentiti, anche perché il signore che avevano come referente per l’adozione era scomparso. Poi hanno anche scoperto che era finito in giri strani. I miei genitori non sono più riusciti a comunicare con la famiglia adottiva, non c’erano più contatti e quindi si sentivano molto in colpa e hanno vissuto tutti questi anni con il pensiero di aver fatto una cosa brutta. Per me è andata bene, ma loro hanno vissuto nel rimorso e sono stati tanto male. Lì nel paesino erano stati additati, perché qui quasi nessuno dava in adozione i bambini, piuttosto li lasciavano morire. Infatti la bambina che è nata dopo di me, che i miei genitori avevano voluto tenere, è morta di infezione. Mia mamma, mi ha detto, ha passato tante notti insonni».

 

 

Adesso in che rapporti siete rimasti?
«Lei non ha un cellulare, mio papà sì, ma non è uno smartphone e quindi sono in contatto solo con i miei fratelli, che ho conosciuto già il giorno stesso. Li abbiamo chiamati e la mamma piangeva mentre parlava con loro. Nessuno di loro viveva più lì, perché mia sorella di vent’anni e mio fratello di ventitré si erano appena trasferiti dalla sorella di ventun anni che lavora a Cuzco e fa un po’ da seconda mamma. A Cuzco infatti vi è maggior possibilità di trovare lavoro e studiare. Poi c’è un’altra sorella che vive a Machu Pichu e ha uno stile di vita molto più occidentale. Li ho incontrati nella piazza centrale a Cuzco. L’appuntamento era alle nove. Io sono sempre in ritardo e il mio fidanzato si lamenta per questo. Noi siamo arrivati al limite, mentre loro molto più tardi. Michele quindi mi fa: “Sono proprio i tuoi fratelli!”. Sono arrivati tutti e tre abbracciati, che sghignazzavano emozionati. I genitori invece non sono venuti perché non hanno un mezzo proprio e non sarebbero potuti tornare nel loro paesino alla sera. Poi il fratello si è messo a piangere, ma io a quel punto avevo finito le mie lacrime».

Glielo hai detto ai tuoi genitori peruviani che ti sposi?
«Loro sanno che ci saremmo sposati, perché ne avevamo già parlato lì e a loro basta questo, anche se effettivamente Michele non mi aveva ancora fatto la proposta. Comunicherò loro del matrimonio quando effettivamente ci sarà, ovvero nel 2019, anche perché la mia bellissima e numerosa famiglia di Bergamo vorrebbe fare una colletta per farli venire tutti e sei!».

Poi la proposta c’è stata, ma in un modo particolare...
«Direi di sì, perché sono stata io a chiedere a Michele di sposarmi! Era già un po’ di tempo che lui “sentiva la pressione” di chiedermelo, perché ormai tutti se lo aspettavano. Quindi ho voluto sorprenderlo, per tenere viva la natura inaspettata di una proposta di matrimonio. In più, lui è sempre stato il romanticone tra i due, io quella più fredda e distaccata. L’ho portato in montagna e ho messo delle lucine sulla neve, in sottofondo una canzone di Ed Sheeran e gli ho fatto leggere un libretto divertente sul perché lo amavo. Nell’ultima pagina c’era scritta la proposta e a quel punto ci siamo messi a piangere. Al posto dell’anello gli ho regalato un orologio con incisa la promessa di una vita».

E la promessa di tanti figli che avranno i capelli bianchi.

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