L'elezione il 14 gennaio

Norma Gimondi scende in campo Il futuro del ciclismo è in rosa?

Norma Gimondi scende in campo Il futuro del ciclismo è in rosa?
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«Un'avventura? Ehm. Nella giungla». E guardate che non è mica facile darci di machete, colpi di idee, tagliare via i rami fastidiosi e farsi largo. Anche se lei, avv. Norma Gimondi, è più agguerrita di Indiana Jones. Welcome to the jungle. Della politica. «Perché anche lo sport può essere così», sorride candida come sempre. Qualche settimana fa Norma ha presentato a Roma il suo programma per l'elezione alla presidenza della Federciclismo. Avverrà il 14 gennaio a Rovereto. Ma è adesso il tempo della campagna (anzi della giungla) elettorale. «Le idee ci sono, i punti importanti anche. Il fatto di aver già provato a fare una breccia nella diga è per me un risultato. Ora vediamo di fare di più». Quello della figlia (di) Felice è un programma ricco, vario e semplice. Perché la semplicità è donna. A proposito: non le dicono mai peccato che sia femmina per fare il presidente? «Il fronte è spaccato. Se guardiamo al rinnovamento, beh, essere donna aiuta. Ma se invece prendiamo l'ambiente ciclismo è più dura. Parlo di politica, ovviamente. C'è gente di una certa età, che ragiona con vecchi canoni. Quando ho iniziato a fare l'avvocato erano quasi tutti uomini. Donne poche. Adesso in un tribunale siamo in maggioranza. È sempre così. Ci vuole un inizio».

 

 

Lei da dove partirà per riformare e ristrutturare il ciclismo italiano?
«Dalla passione. Questo è un primo punto, ed è quello che bisogna sempre seguire nelle cose. Amo il ciclismo. E poi c'è un programma per risolvere i problemi che abbiamo».

I primi tre quali sono?
«Abbiamo uno Statuto da riformare. Ho indicato che entro un anno dalle elezioni venga indetta un'assemblea straordinaria per deliberare alcune modifiche. Una: ricostituire come organo obbligatorio il Consiglio di presidenza. Ci vuole più democrazia. E poi i mandati: non più di due, dopo stop. Deleghe ai consiglieri: ognuno deve avere un ambito, ciascuno deve dare il suo apporto specifico. Poi ci sono i territori».

Cioè?
«Comitati come Bergamo, Treviso e Brescia girano alla Federazione 250mila euro raccolti per tesseramenti e gare. Cosa torna indietro? Poco. Non è possibile. Bisogna cercare di portare avanti un federalismo sportivo e premiare chi lavora meglio».

E chi fa fatica invece?
«Lì bisogna intervenire. In alcune Regioni non abbiamo più i Comitati regionali, come ad esempio in Molise. Bisogna capire come mai si perdono talenti, perché va così. Dove un comitato lavora bene va premiato, dove c'è una difficoltà ci vuole ascolto e aiuto».

 

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Norma e Felice Gimondi.

 

È il territorio il patrimonio da cui partire?
«Certo. Comitati provinciali e regionali devono partecipare attivamente alla vita del Consiglio. Con momenti di confronto. Oggi i presidenti regionali vengono convocati due volte l'anno. Non va bene. Che senso ha? Se non ascolti il territorio è inutile».

Allora è vero: è proprio come la politica...
«Lombardia, Veneto e Toscana e altri Comitati regionali lavorano molto bene, penso anche al Piemonte. Bisogna ascoltarli e dare un sostegno. E nel Consiglio federale dovrebbero esserci i rappresentati di queste Regioni, anche senza diritto di voto, ma con la possibilità di portare la loro esperienza e il confronto».

A proposito di confronto: suo padre che le ha detto?
«Quando gli ho detto della candidatura è rimasto in silenzio, ha guardato in terra e ha detto: “Ne sarei orgoglioso”. E poi ha aggiunto di stare attenta perché la politica, anche se sportiva, mi avrebbe messo di fronte a compromessi. “E noi non siamo gente da compromessi, Norma”, mi ha detto».

Vero?
«Sì. Sono abituata a un ciclismo meritocratico».

Che sensazioni ha?
«Se dovessi rapportarmi a società e tesserati sarebbe diverso. Domenica scorsa ero in bici dalle parti di Gianni Motta, territorio avversario (e ride, ndr). Mi affiancano dei signori di Cassano e mi dicono che il rinnovamento sono io. Il messaggio è: "Andiamo avanti, aria nuova". La base lo sente, bisogna vedere i grandi delegati. Io però me lo auguro. Altri quattro anni di staticità così no. Non so come troveremo il ciclismo dopo».

 

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Prima parlava di territorio, la globalizzazione ha fatto male o bene al ciclismo?
«A noi male: ha impoverito il nostro calendario. Fino a dieci anni fa l'Italia era il Paese con la maggior parte delle gare. Ora si va in Australia, in Qatar. E la federazione non ha fatto niente. Mio papà faceva il giro di Sardegna, di Sicilia, e pensate a come il turismo potrebbe aumentare, come si potrebbe presentare il tutto all'estero».

Intanto sono sparite le squadre italiane a livello Pro Tour. Perché? Cosa fare per riavere il grande ciclismo in Italia anche a livello di team?
«Questo è un punto fondamentale del mio programma. La crisi economica effettivamente ha colpito tutti i Paesi europei. Ma Francia, Olanda, Belgio e Spagna hanno saputo reagire. Loro hanno squadre Pro Tour e un movimento che resiste, oltre ad un buon calendario di manifestazioni. Se avessimo avuto un progetto da condividere coi team sarebbe andata diversamente, è in questo che bisogna agire, avrebbe creato una sinergia».

Vuole dire maggiore forza tre le parti?
«Voglio dire che è importante tutelare il nostro calendario. Anche andando in contrapposizione con l'UCI. E bisogna far tornare alcune corse che sono sparite. Poi c'è il made in Italy. Se la federazione con comprende che bisogna coinvolgere tutti i soggetti non si va avanti. È anacronistico».

Di quali soggetti parla?
«Tutti. Produttori di biciclette e accessori, addetti ai lavori, quelli all'informazione. Il territorio, come dicevo poco fa. Se la maglia azzurra riprende vigore e valore tutto diventa possibile».

 

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A proposito, abbiamo un campione olimpico: Elia Viviani. Cosa fare per aiutare concretamente la pista in Italia?
«I successi di Elia sono i successi di un atleta e di una squadra. Marco Villa è un grande tecnico, ma deve essere supportato da un grande progetto lungo quattro anni e con la realizzazione di strutture. Il Velodromo a Fiorenzuola è bello. Quello a Montichiari anche, ma non è usato a dovere. Se riuscissimo a usare la pista come "scuola" di ciclismo potremmo lavorare sui ragazzi e sulle specialità più giovani come BMX, MTB e trial».

Chi gliel'ha fatto fare di candidarsi?
«Eeeeh. Ogni tanto me lo chiedo (ride, ndr). Sono andata in crisi all'inizio. Ho la mia quotidianità. Ma questo è il ciclismo, lo amo, e quindi se posso fare qualcosa ci sono».

Che cos'ha di speciale il ciclismo?
«Ha iniziato ad andare in bici prima ancora di camminare, figuratevi. Per me la bicicletta è un bel paese dei balocchi. Qualche giorno fa giravo in un museo, tra le bici dell'Ottocento, ed ero gasatissima. È amore. Ma poi il ciclismo è anche tradizione e famiglia. Papà è papà, e ok. Zio e cugino hanno fatto i gregari professionisti. Quindi famiglia, e la famiglia del ciclismo è grande…».

Che cosa sogna?
«Papà partecipò alle Olimpiadi Tokyo nel '64. Nel 2020 ci saranno i Giochi proprio lì. Il mio sogno è arrivarci».

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