Memoria e nostalgia

Pepi Merisio: «Sono preoccupato per Bergamo, non è più la mia»

Pepi Merisio: «Sono preoccupato per Bergamo, non è più la mia»
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In copertina, Ritorno da scuola, Livigno 1961, di Pepi Merisio.

 

Pepi Merisio è nato a Caravaggio nel 1931, ma abita a Bergamo da decenni. È forse il maggiore dei fotografi bergamaschi. Ha cominciato a fotografare per hobby alla fine degli Anni Quaranta, mentre era studente (si è laureato in Filosofia). Negli Anni Cinquanta le sue immagini cominciavano a venire apprezzate e pubblicate da diverse riviste, a cominciare da quella del Touring (Le Vie d’Italia), da Famiglia Cristiana, Camera, Stern, Paris Match, Epoca. Tra le sue prime immagini viene ricordata quella all’interno della Stazione Centrale di Milano, con il gioco quasi metafisico dei raggi di luce (è del 1953). Fu all’inizio degli Anni Sessanta che decise di fare il fotografo professionista. E alla fine di quegli anni arrivò la pubblicazione del suo primo, storico volume: Terra di Bergamo. In quel decennio, Merisio aveva messo a fuoco la sua ispirazione: la vita dei semplici che stava per cambiare radicalmente davanti a l l’avanzata della “modernità”. In quegli anni divenne anche fotografo ufficiale di Papa Paolo VI nel corso dei suoi viaggi. Il suo percorso di vita e di fotografo continua ancora oggi.

 

Da Terra amata di Pepi Merisio

 

«Sono preoccupato per Bergamo».

Perché?
«Ha perso dei pezzi importanti della sua storia e della sua economia. La chiusura dell’Italcementi mi è sembrata una cosa terribile per la nostra terra. Avranno avuto certo le loro ragioni, ma per Bergamo è stata una perdita forte. Posti di lavoro, conoscenze, ricchezza. E abbiamo perso le banche, la Popolare e il Credito. Vede, non erano soltanto delle banche, erano luoghi centrali dell’economia bergamasca, e quindi anche della socialità. Quello che hanno fatto le banche per la cultura a Bergamo... io ne sono bene qualcosa».

I suoi tre volumi, Terra di Bergamo, furono una pietra miliare nella storia della fotografia in Italia.
«Fu pubblicato alla fine degli Anni Sessanta da Bolis, ma su iniziativa e con il finanziamento della Banca Popolare di Bergamo. Quell’iniziativa ha consentito a me di pubblicare tanta parte del mio lavoro sulla nostra terra, sul cambiamento epocale che era in atto, la fine della civiltà contadina».

Abbiamo l’aeroporto e l’università. Il turismo va a gonfie vele.
«Per fortuna. Abbiamo anche una Dalmine Tenaris particolarmente forte, efficiente. Il turismo ha due volti, porta ricchezza e persone, ma rischia di snaturare i luoghi. Basta vedere che cosa sta succedendo in Città Alta. E poi la mia impressione è che le personalità spiccate, le teste pensanti non abbondino».

 

Una sposa a Villa d'Adda, 1965, Pepi Merisio

 

Bergamo punta molto sulla cultura.
«Bene, speriamo. Però ho qualche appunto da fare. Avevamo due bellissime sale per le mostre, il Teatro Sociale e l’ex chiesa di Sant’Agostino. Sono diventate inutilizzabili perché hanno inserito le file di poltrone fisse... Ho tanto sperato che restassero dei luoghi flessibili, adattabili, come si dice con una parola brutta: polivalenti. Adesso c’è ancora il palazzo della Ragione, speriamo non venga bloccato anche quello».

Si sta facendo uno sforzo per rilanciare Donizetti e il suo festival.
«Questa è un’ottima cosa. Bergamo aveva una cultura operistica importante e molto popolare che è andata persa. Ricordo mia madre, ma non solo lei, che faceva i mestieri in casa e cantava le arie delle opere. All’osteria si cantavano le melodie, magari con un pianoforte o una fisarmonica».

Bergamo sta cercando di realizzare una cosa importante: il museo fotografico. Il Museo delle storie di Bergamo ha già ricevuto importanti archivi come quello di Lucchetti. E anche il suo.
«Sì, anche il mio. Penso che sia un’iniziativa davvero importante, va dato merito al Museo. Oggi la fotografia è considerata base della documentazione storica».

Quando si guarda una vecchia fotografia si prova emozione.
«Lei pensi alla sensazione che danno quelle fotografie storiche, per esempio quelle dell’incontro di Mussolini e Hitler, fatte dal grande Salomon con la sua Zeiss. Io per quindici anni ho fotografato i viaggi di Paolo VI e i suoi momenti importanti, e quelle foto mi vengono sempre richieste. Ma non solo quelle foto. Anche quelle delle persone umili: le foto dei boscaioli, dei minatori, me le chiedono tanto persino dall’America. Le foto del funerale dello zio Angelo. Continue richieste».

Ma perché?
«Credo che in tante immagini troviamo un’emozione. Ci dicono che un passato c’è stato davvero, eccolo lì da vedere. Ci commuoviamo davanti a quei volti, quegli occhi, quelle mani di persone che magari non ci sono più. Come davanti agli edifici, alle strade, alle automobili testimoni di tante vite. Perché se un passato c’è stato, allora questo significa che noi veniamo da un luogo e da un tempo. Siamo vivi davvero!».

 

Piazza Vecchia, Bergamo 1974, Pepi Merisio

 

L’America è sempre interessata all’Italia.
«Sì, anche perché là ci sono tanti discendenti di italiani. Milioni. C’è un gallerista di New York, De Lellis, anche lui discendente di italiani, che è venuto due volte in Italia, anche da me, alla ricerca di foto degli Anni Cinquanta del nostro Paese. Cerca i dettagli che raccontano quel modo di vivere. Mi ricordo la sua commozione quando gli ho fatto vedere una mia foto in cui due marinai americani prendevano il sole nel porto di Genova».

Le fotografie ci parlano di un tempo che non c’è più, ce lo fanno ritrovare?
«Sì, ritroviamo un brandello di quel tempo, di luoghi, di persone che magari abbiamo amato, conosciuto. Ogni volta che rivedo le fotografie del funerale dello zio Angelo, scattate nel 1963 in Val Gandino, io provo una commozione interiore, forte. Ma il bello è che questa emozione, magari con diversa intensità, la prova anche chi lo zio Angelo non lo ha mai conosciuto. C’è un processo di identificazione».

Quando ha scattato la prima fotografia?
«Da bambino. Ma la prima che riconosco come mia fotografia, fatta con una certa consapevolezza, è quella che feci da ragazzo, avevo diciassette anni, ad Albisola: le nuvole. C’era un bel tramonto e delle nuvole strepitose dove la luce giocava».

Torniamo al funerale dello zio Angelo: se ne parlò in tutto il mondo.
«Già. Nel 1967 la rivista fotografica svizzera Du pubblicò il servizio su sedici pagine, senza nemmeno una didascalia. Il direttore scrisse poche righe all’inizio, su una pagina nera, diceva che aveva scelto quelle fotografie e che c’era soltanto da guardarle. Per me fu un momento importante. Ma credo che la spiegazione sia sempre la stessa: in quelle immagini c’è qualcosa in cui la sensibilità di tante persone si proietta, le immagini di quelle persone semplici, di quei luoghi, hanno una dignità, un valore che forse va oltre il tempo».

Lei ha fotografato quasi sempre persone semplici.
«È vero».

 

Emigranti, Milano 1966, Pepi Merisio

 

C’è quella foto di Milano, quel papà e quella mamma, il papà ha un bimbo piccolo in braccio.
«È una foto nata così, in un attimo. Stavo camminando e mi sono trovato davanti a quella famigliola, ho scattato subito. Anche loro erano dei semplici, avevano lo sguardo serio, il papà teneva il bambino con tenerezza e camminavano sulla strada sterrata e dietro c’erano dei cantieri edili. Il papà, la mamma e il bimbo e dietro la nuova Milano dei grattacieli che avanzava».

Sembrano Maria e Giuseppe che fuggono in Egitto davanti alla minaccia. Quella Milano nuova che avanzava, che si mangiava le cascine e i campi...
«Sì, è così, il nuovo distruggeva valori e identità secolari. Rischiava di aprire una porta sul nulla. E infatti i nostri tempi sono segnati dal nichilismo».

Lei ha dichiarato di avere sempre battuto il marciapiede.
«Sì, con orgoglio. Nel senso che ho sempre camminato, che ho percorso tutta l’Italia a piedi e in auto. Migliaia di chilometri, anni e anni, ogni angolo, ogni paese. Io camminavo e fotografavo perché mi rendevo conto che tutto stava cambiando e che io potevo salvare il passato con la fotografia».

 

Interno, Grosio (Sondrio) 1975, Pepi Merisio

 

Il nuovo era il mostro che fagocitava ogni cosa.
«Abbiamo perduto tanto della bellezza e della dignità di un tempo. Guardi quel papà e quella mamma con il loro bambino, a Milano, sulla strada di terra: hanno una dignità che commuove. E sono persone del tutto umili. Ho visto bellezze incredibili scomparire nel giro di pochi mesi. E io mi affannavo. In questo momento mi viene in mene la via di Pré a Genova, lei non ha idea di che cosa fosse. Unica. Una via di case antiche, di marinai, pescatori, prostitute, della ragazza che suonava la fisarmonica, dell’uomo che vendeva l’aglio che coltivava nell’orto dietro casa... un mondo di una autenticità profonda».

Lei mi ha detto che ci sono persone luminose e persone diaboliche.
«È un modo di dire. Voglio chiarire: nella vita ci sono persone che aprono spazi. Persone accoglienti, che danno valore agli altri e al mondo. E ci sono persone che chiudono gli spazi, che irrigidiscono la realtà, che bloccano la creatività. Da un lato la libertà, dall’altro la costrizione».

Anche a Bergamo ci sono queste persone?
«Certo, le une e le altre».

 

Pasqua in San Pietro, Vaticano 1964, Pepi Merisio

 

E Paolo VI che persone era?
«Guardi, Paolo VI era una persona di luce. Io ho avuto la fortuna di conoscerlo bene, di stargli accanto nei viaggi, anche sull’aereo, sulla poltrona accanto a lui. Era una persona di una cultura talmente vasta che io non ne ho conosciuti di eguali. Ma ti parlava delle cose più difficili, delle questioni teologiche più ardue con tale semplicità che sembrava tutto facile. Era una persona squisita, dagli occhi profondamente buoni. La sua fede era luminosa. Amava la vita. Nel suo testamento scrisse: “Chiudo gli occhi su questa terra dolorosa, drammatica e magnifica”. Magnifica».

Paolo VI e Giovanni XXIII erano molto legati.
«Molto diversi e molto amici, legati da una stima profonda. Paolo VI volle dormire sul letto di ferro dove era morto Papa Giovanni».

Ma lei oggi che cosa fotograferebbe?
«Oggi non è facile fotografare qui da noi perché c’è una forte omologazione, poca originalità. Meno verità. Tutti si imitano. C’è un’aria di finzione. Quello che conta è il comprare. Finzione e volgarità vanno d’accordo. Una volta vedevo molto dignità e molta umiltà. Oggi si credono tutti dei padreterni...».

 

Le rogazioni, Valsassina 1960, Pepi Merisio

 

Che cosa dice dell’arte contemporanea?
«La stragrande parte è da buttare via. Solo una moda. Però ci sono anche buone cose, penso per esempio a Domenico Palladino. Da noi abbiamo avuto il grande Trento Longaretti, ma non mi pare che molti “intellettuali” della città lo abbiano davvero amato e riconosciuto nel suo valore».

Altri artisti?
«Alberto Vitali, senza dubbio. Fra i “giovani” penso ad Alessandro Verdi, a Maurizio Bonfanti, Ugo Riva... tornando indietro, mi viene in mente il grande Natale Morzenti, di Martinengo, anche a proposito di dignità e di umiltà. È morto nel 1947. Era poverissimo. Mio padre lo stimava. Un giorno andò a trovarlo e vide una meravigliosa crocifissione dove però la parte destra non era finita; gli chiese allora perché non la terminasse e Morzenti gli rispose: “La finisco quando ho i soldi per i colori”. Mio padre gli comprò i colori e poi il quadro».

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