Su Tuttosport

Il ritratto di Vittorio Feltri a Felice

Il ritratto di Vittorio Feltri a Felice
Pubblicato:
Aggiornato:

Vittorio Feltri, per Tuttosport

 

Una volta è successo che un uomo qualunque, che di mestiere guidava dei camion con sei o anche otto ruote e sul suo camion guardava il mondo da un metro e mezzo più in alto, abbia avuto un figlio cui di ruote ne bastavano due, sottili sottili, che gli tiravano fango sulla faccia, e tutti sapevano il suo nome. Il figlio non trasportava merci, ma le cose ugualmente pesanti e ingombranti che porta sulle spalle un campione: talento, sudore, tenacia, solitudine, infine gloria.
Sto parlando di Felice Gimondi, bergamasco, ciclista (…). Ho scritto “bergamasco” come primo aggettivo, non a caso: ho deciso di raccontare di Gimondi poiché è uno sportivo memorabile, certo, 118 vittorie in quattordici anni di carriera, ma anche perché i bergamaschi si commuovono per tre cose: Papa Roncalli, l’Atalanta e Gimondi.

Nato nel settembre del 1942 a Sedrina, a quindici chilometri dal capoluogo orobico, Felice è il secondo di tre figli. La mamma faceva la postina, pedalava su e giù per la montagna - ché Sedrina, un comune che ora conta duemila abitanti o poco più, è proprio all’imbocco della Val Brembana ed è già montagnoso - e il babbo aveva una piccola impresa di trasporti con i cavalli: passò dieci anni in Brasile, poi tornò in Italia e cominciò con i camion: il primo, racconta Gimondi, era un Bl che andava a legna, con la cisterna su un lato. Il papà compra a Felice la prima bicicletta come premio per essere stato promosso in terza elementare.

Era una “Ardita”, rossa: «Avevo sette o otto anni. Ero così contento che la inforcai subito, ma caddi e mi ruppi un dente». Come esiste la fortuna dei dilettanti, un caso di sfortuna dei campioni. Ma la prima bici vera, da corsa, arriva a sedici anni. Come nella maggior parte delle famiglie, a quei tempi di soldi non ce ne sono granché e allora il padre promette al secondogenito che se l’avesse accompagnato a fare una consegna nel Cremonese (il trasporto era di sabbia del Po, non si usava il gesso per costruire le case) e se avesse ricevuto subito il denaro - era un cliente che non pagava mai - avrebbe fatto l’acquisto tanto desiderato.

Al ragazzino andò grassa: il cliente saldò 30 mila lire e Felice ebbe la bici, una Maffioletti usata. «Lasciai gli zoccoli in mano a mio padre, saltai in sella e pedalai a piedi nudi fino a casa. All’inizio non arrivavo nemmeno ai pedali e allora mettevo una gamba di traverso in mezzo ai tubi del telaio per poter pedalare». (…)

 

 

Ha 22 anni quando diventa professionista, vince a sorpresa il Tour de France: non avrebbe nemmeno dovuto correre e pensava di puntare, al massimo, alla maglia bianca di miglior giovane. Arrivò alla gara sostituendo Battista Babini, come gregario di Vittorio Adorni, suo compagno di squadra. Ovvero, avrebbe dovuto aiutare Adorni a vincere, che quell’anno, il 1965, se la vedeva con il favoritissimo francese Raymond Poulidor. Gimondi aveva una bici color del cielo, una Chiorda marchiata Magni («Ci vinsi anche la Roubaix e il Lombardia », racconta), e una forza esuberante, spregiudicata.

(...) Nel frattempo, Gimondi si era sposato con una ragazza che aveva conosciuto in Liguria, a Diano Marina, in vacanza, prima di diventare famoso. Tiziana Bersano (...) è la prima persona, oltre a Gimondi, che ha fatto grande Gimondi. La seconda è quel bandito di Eddy Merckx, quel belga, considerato il migliore, il ciclista più completo di tutti i tempi. Lo chiamavano il Cannibale, tanto era cattivo (...) e Gimondi, che invece era un campione gentile, psicologicamente agli antipodi, se lo trovò sempre tra i piedi. «Ho dovuto correggere il mio modo di essere, il mio modo di correre. Prima non prenderle e poi, se possibile, dargliele. Perché era dura dargliele, a quello lì». Certamente una sfortuna, ma fu peraltro una delle sfide più appassionanti della storia del ciclismo: «Lottavamo sempre con il coltello tra i denti», sintetizza Felice.

(...) Nel 1970, durante un’intervista su TeleMarche, una rete francese, Felice disse: «Ritengo che Merckx mi abbia preparato alla vita, che mi abbia insegnato che non tutto è facile». L’intervistatore, lo punzecchiò: «E cioè? Battendola?» - «Sì». Per questo, la gara più bella, quella che è rimasta nel cuore di tutti, è il Campionato del mondo nel 1973, a Barcellona, al Circuito del Montjuich (...). Sul rettilineo finale Maertens è impegnato a lanciare lo sprint a Merckx, che però, un po’ per stanchezza un po’ perché Maertens aveva avviato la volata con un impeto eccessivo, perde l’attimo buono per lo sprint finale. Sulla linea del traguardo, Maertens e Gimondi si tirano una spallata, poi con un colpo di reni l’italiano mette la ruota davanti e alza il braccio al cielo. Felice Gimondi è campione del mondo.

Seguici sui nostri canali