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Quelli che vivono come Rahaman vendendo le rose per le strade

Quelli che vivono come Rahaman vendendo le rose per le strade
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Viene spontanea una premessa alla Italo Svevo: in questa storia potrebbero esserci tante verità e tante bugie. Le bandiere politiche possono continuare a sventolare, il diritto al dubbio è sacrosanto. Stiamo parlando di Rahaman Sayde. Professione sulla carta d’identità italiana: nessuna. Professione reale: venditore di rose all’incrocio di Borgo Palazzo. La sua è una storia simile a quella di tanti altri, schiacciati ai bordi delle strade, ogni giorno, a dire sempre quella parola, martellante: «Rose! Rose!». Il simbolo dell’amore, improvvisamente degradato a oggetto di costante umiliazione nei continui «finestrini alzati con disprezzo» di noi altri, che a quell’ora abbiamo altro a cui pensare. Perché Rahaman, come tanti, in Italia ci è venuto da solo. Il suo cuore, i suoi due bambini, cinque e sette anni, vivono in Bangladesh: «Se riesco, a Natale ci torno dopo tre anni che non li vedo». Parlando con lui lo vediamo straordinariamente sorridente. Ci mostra orgoglioso il suo documento, scopriamo che ha trentasette anni. Magro com’è, con la fronte sudata e aggrottata, ci era sembrato almeno dieci anni più vecchio.

Come sta andando oggi?
«Oggi ho già venduto due rose. Ieri e l’altro ieri neanche una. Speriamo che questa sera continui così».

Da quanto tempo fai questo “mestiere”?
«Da quando sono arrivato in Italia cinque anni fa. Ho iniziato quasi subito. Sono a questo incrocio da nove mesi».

E quanto guadagni?
«Poco: compro le rose a cinquanta centesimi l’una e provo a rivenderle a uno o due euro. Nei giorni migliori ho guadagnato dieci-quindici euro in una sera. Poi mando tutto in Bangladesh, tranne quel poco che mi serve per vivere e i soldi che devo dare al mio padrone di casa a Celadina: trecento euro al mese. Ma non sempre riesco a guadagnare trecento euro al mese».

Dove ti procuri le rose? Qualcuno pensa che ci sia un’organizzazione, un fornitore comune o qualcosa del genere.
«No, non c’è niente: ogni mattina vado dove c’è la Banca d’Italia e le compro lì. Altri vanno a comprarle a Milano al mercato (un fiorista che a tal proposito intervistiamo in via XX Settembre accanto alla Chiesa di Santa Lucia, che preferisce restare anonimo, ci conferma che ogni giorno al mercato Forlanini di Milano incontra decine di ragazzi che, come Rahaman, acquistano le rose per rivenderle la sera, ndr), ma il biglietto del treno costa più di quello che guadagno in un giorno, quindi non lo faccio».

E la polizia?
«La polizia mi ha multato diverse volte. Il giorno della festa della donna ho preso tremila euro di multa».

Come hai fatto a pagarli?
«Ho chiesto del tempo per raccogliere i soldi necessari».

Una curiosità: c’è un motivo per cui tutti i tuoi colleghi provengono dalle tue stesse zone? India, Pakistan, Bangladesh, Nepal. Oppure semplicemente non è così?
«Un amico mi ha consigliato di fare questo per guadagnare qualcosa. Anche lui vendeva le rose. Degli altri non so niente».

Qual è il tuo più grande desiderio?
«La mia famiglia sta bene anche grazie a me. Per questo continuo a stare qui. Vorrei vederli di più».

Ringraziamo Rahaman e lo lasciamo alle sue rose, ai suoi finestrini e ai «no, grazie» degli automobilisti. Sappiamo che non è detto che ci abbia raccontato tutta la verità. Sappiamo che non tutto torna. Ma l’unica cosa certa, inconfutabile e ammirevole, è la capacità di resilienza di un uomo che per la sua famiglia attraversa migliaia di chilometri e sopporta per ore, per giorni, per mesi e per anni il sole di agosto e il gelo di dicembre, dicendo sempre e solo quella parola: «Rose!».

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