Un incontro con Vanna Toninelli

Locatelli, il chirurgo dei bambini che ha fatto grande l'Ospedale

Locatelli, il chirurgo dei bambini che ha fatto grande l'Ospedale
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Giuseppe Locatelli è stato uno dei più grandi medici che i Riuniti abbiano mai avuto, insignito nel 2008 dal Comune di Bergamo con la Medaglia d’oro di benemerenza al merito civico e alla memoria con la seguente motivazione: «Illustre medico chirurgo specializzato in chirurgia per l’infanzia, ha saputo coniugare l’impegno civile con il servizio a favore dell’infanzia malata, per la quale ha creato l’Associazione Bambino in Ospedale». Ne scrive, raccontando di un loro incontro camminando per le sale dell’ex-Ospedale di Largo Barozzi, la giornalista Vanna Toninelli, responsabile dell'ufficio stampa del Papa Giovanni. Pubblichiamo qui, per gentile concessione di Bolis Edizioni, un significativo stralcio del suo articolo, apparso tra i quattro interventi di prefazione al libro Il teatro della vita di Federico Buscarino. Un ritratto delicato e autentico di questo straordinario chirurgo. E uomo.

 

Gli Ospedali Riuniti, il Maggiore per tutti i bergamaschi, dovrebbero essere ormai uno scheletro vuoto. Invece nell’atrio del padiglione pediatrico un camion giallo raccoglie cimeli della buona sanità bergamasca da esportazione, destinazione Gerusalemme. Un gruppo di volontari sfida il caldo che morde nel primo assaggio di bella stagione e carica, scarica, sposta, sotto lo sguardo attento di due impiegate del Papa Giovanni.

Giuseppe Locatelli attraversa i vialetti del piazzale con la stessa andatura costante e discreta con cui entrava, il mattino presto, e usciva, la sera tardi, dalla sala operatoria. Solo il portone chiuso a chiave gli impedisce di scegliere l’ingresso secondario, da cui sgaiattolava quasi scusandosi a giornata conclusa.

L’atrio del padiglione custodisce fresco e ricordi, polvere e storie. Locatelli accarezza corridoi e stanze con lo sguardo: «Dove andiamo?». Al secondo piano, prof. L’ascensore funziona ancora. «Ecco, qui operavamo. Qui abbiamo fatto il primo trapianto di rene. Qui c’era la camera post operatoria, poi l’abbiamo trasformata in operatoria, avevamo bisogno di due sale. C’era un flusso d’aria sterile continuo, l'avevamo fatto ad hoc per i bambini piccoli».

L’avevamo chi, prof? «Il mio gruppo e la gente fuori. Banche, associazioni….. La Cariplo, il Credito Bergamasco, tutto con sottoscrizioni e contributi esterni. Noi dell’ospedale non abbiamo comprato attrezzature: la Terapia Intensiva Pediatrica l’ho voluta fortemente, è costata cinque miliardi di lire».

 

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Scuote la testa: «Pazzesche le nostre iniziative: se dicevamo di aver bisogno d’aiuto, la gente ci aiutava. Ci aiuta, anche oggi». Prima del fundraising, delle campagne, degli uomini immagine, a Locatelli bastava spiegare cosa stava facendo per mettere in moto una gara di solidarietà. Un reparto d’avanguardia pagato con le cene e le bancarelle e alcuni supporter di peso, come Trenta Ore per la Vita. La madrina, Lorella Cuccarini, «aveva preso a cuore la cosa e ci ha aiutato molto». Non un caso isolato a Bergamo, basti pensare all’Hospice o alla Cell Factory Lanzani, donati all’ospedale da due associazioni.

Così schivo, fedele al timbro dei nati in Valle Imagna, Locatelli aveva (ed ha!) una sorta di fan club. «C’era un rapporto di fiducia estrema nei miei confronti, con la gente e fra di noi. Le mie collaboratrici – erano pochissime - per non spendere soldi, anche solo in francobolli, facevano le consegne a mano, ognuno copriva le spese di tasca propria. Come quando siamo andati in tre a Roma, dalla Cuccarini in trasmissione: nulla a carico dell'Associazione, nemmeno cinque lire».

Beppe Remuzzi, nel convegno 2009 che ha reso omaggio a Locatelli e alla storia dei trapianti, lo ha fotografato definendolo «lavato da una vita». Si lavano i chirurghi, quel lavello è il confine fra un mondo che noi “laici” ci auguriamo di frequentare il meno possibile, e del quale comunque non conserviamo ricordi. Di là si celebra una liturgia di gesti, parole, suoni. Guardi dentro l’essere umano, capita di tenere in mano un cuore, di riprendere un battito o un respiro per i capelli, di ricostruire quel che non c’era o si è disfatto. Un chirurgo, osservando Locatelli in un intervento pelvico di una bambina, mi confidò: «Sembrava creare la materia dal nulla».

Un potere che fa tremare i polsi. Alcuni, spesso quelli che meno meriterebbero, scambiano il servizio con il successo, s’innamorano di se stessi, considerano il paziente un male necessario. Altri prendono sul serio Ippocrate e l’origine degli ospedali, le confraternite medioevali.

 

per ceresoli  dott. Locatelli ( foto di Yuri Colleoni )

 

Una vita scandita da un compito, per chi sceglie di abitare la casa dei malati. «Noi medici torniamo a casa a dormire, mentre il malato resta qui, ci vive completamente... Pensi ai ricercatori, vivono qui, passano anche il sabato e la domenica a controllare i risultati, è un’attenzione continua... Non dico che tutti siano così, ma la loro vocazione lo richiede».

Di sé poche parole, senza fronzoli. «Sono sempre stato presente, anche sabato e domenica facevo “il giro”. Le mie ferie le passavo qui a due passi, in Val Imagna, per poter essere disponibile». Un sacrificio per chi stava anche costruendo una famiglia? «Lo rifarei ancora, mi sono realizzato come uomo, prima che come medico. Confesso che sono cattolico e questo mi ha aiutato: darmi gli altri è nella mia cultura. A casa se a mezzogiorno passava qualcuno, i miei genitori lo invitavano sempre». Un messaggio che non si è interrotto, con quattro figlie che hanno scelto di essere medici. Il prof commenta: «Purtroppo», ma il sorriso tradisce il vero sentimento. «Non le ho seguite molto… Mia moglie si è sacrificata davvero, se non avesse avuto certi valori…».

Lasciate alle spalle le sale operatorie, ecco la Pediatria, l'Oncologia Pediatrica. «Avevamo tanti bambini con tumore e leucemia. Li operavamo, ma nonostante i nostri sforzi alcuni morivano. In altri i tumori regredivano e scomparivano spontaneamente, non sapevamo perché».

Veder morire un bambino che ti hanno affidato è una sconfitta. Ci si abitua mai? «Si soffre, ci vuole forza. Ma ci sono altri casi che aspettano, non puoi lasciarti prendere, devi superarlo. Quando accade si analizza tutto, è un momento importante! Si verifica se è stato fatto tutto correttamente, se è stato fatto tutto il possibile, fino in fondo. Gli errori, se ci sono stati, non devono ripetersi. Io tutti i miei interventi li passo al setaccio, è la mia natura: ho fatto così, ma forse era meglio cosà... Mi è servito per migliorare, non migliori se eviti questa fase. E questo lo fai solamente se ti appassioni».

[Da sinistra, i medici Giuseppe Remuzzi, Giuseppe Locatelli e Lucio Parenzan]

a Parenzan Locatelli Remuzzi

 

Una passione che traspare dai particolari. «Avevamo delle attenzioni speciali. Una cosa che non vedo nei medici, ora, è l'attesa del risveglio. Essere medico non è solo fare un lavoro, che termina messo l’ultimo punto… Non allontanarsi mai se non hai visto il risveglio! Questo l’ho imparato dal professor Parenzan. Restava per vedere come andava. Oggi abbiamo gli apparecchi che fanno il lavoro che noi facevamo leggendo sulla faccia del bambino. La saturazione, la gittata cardiaca, gli apparecchi ti dicono persino quanto pompa il cuore al minuto. Noi non avevamo tutto questo, eppure i bambini ci campavano lo stesso! Ci mettevamo tanto amore, tanta pazienza: avevamo imparato a “leggere” la faccia dei bambini, la loro sofferenza o il loro miglioramento».

Ce l’ha un rammarico? «Qualcosa sì… C’è sempre qualcosa che si poteva fare meglio, anche solo per stanchezza. Cerchiamo di mantenere alta la tensione, dall’inizio alla fine, specie con i bambini: si tratta della loro vita! Mentre operi, se sei attento e appassionato a quel che fai non senti la stanchezza. Certe malformazioni richiedevano di stare in sala dodici ore».

E l’intervento più lungo lo ricorda? «Una bambina, sembrava una cosa piccola e siamo partiti all’una. L’avevano già operata in un altro ospedale, aveva aderenze terribili, l’intestino era irriconoscibile. Ci sono volute 24 ore per rimettere tutto a posto. Un collega ogni tanto passava e mi diceva: togli tutto, togli tutto, ma come si fa? Oggi sta bene, non ha più avuto problemi».

E il bimbo più piccolo? «Un maschietto, veniva da Como e pesava tre etti e ottanta. Io non volevo operarlo, ma hanno insistito e alla fine ce l’ha fatta. Il primo sopravvissuto. Una volta a questi bambini si faceva nulla. Noi abbiamo cominciato a operarli e allora ci serviva la rianimazione e ce la siamo inventata, perché non c’era l’anestesista. Per 15 anni abbiamo fatto anche la rianimazione neonatale, la mattina facevo il chirurgo e il pomeriggio il rianimatore».

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Quante cose ha fatto e ha visto partire ai Riuniti? «Ho sempre cercato di fare cose nuove. Non m’improvvisavo, ma quando mi sentivo pronto partivo. La prima rianimazione pediatrica l’abbiamo creata qui. Inventavamo (prima di essere chirurgo pediatrico Locatelli era cardiochirurgo nel gruppo di Parenzan, ndr), allora si poteva: la circolazione extracorporea, il primo trapianto di rene…, Per il primo trapianto di fegato, l’autorizzazione era a mio nome, avevo convinto il Ministero che potevamo farcela. Siamo un ospedale periferico e aprire una nuova attività non era facile, in Italia ne erano stati fatti solo sette o otto. Ne avevo parlato con Provera, c’era anche Remuzzi. Anche allora una banca, la Popolare di Bergamo, ci aiutò». Il resto è storia. Oggi Bergamo fra i primi cinque centri al mondo per il trapianto di fegato pediatrico. Le nuove tecniche firmate dal gruppo arrivato da Milano, Gridelli, Colledan, Lucianetti.

Sempre passeggiando, si arriva alla farmacia interna, con la targa liberty e le attrezzature antiche. Oggi al Papa Giovanni i farmaci vengono distribuiti da armadi intelligenti, robotizzati, e i materiali viaggiano su carrelli che sanno da soli dove andare. «Sì, è un passaggio epocale, la medicina è più tecnologica e forse meno umana. Lo stretto rapporto con il paziente non c’è quasi più. Noi lo vedevamo in continuazione: il famoso “giro” durava dalle 8 alle 12, l’una e poi si riprendeva nel pomeriggio. Adesso c’è la TAC che fa la diagnosi, c’è l’ecografia, allora con la radiologia tradizionale non avevi informazioni precise, vedevi solo se l’ombra cardiaca era spostata, se il cuore era ingrossato». Lo strumento era lo sguardo? «Lo sguardo, la palpazione e un’anamnesi precisa». Quindi umanità e tecnologia sono alternative? «La tecnologia favorisce, se uno per indole è vicino a chi soffre, lo sarà comunque».

Lei è stato un maestro, ha avuto sempre molti giovani attorno e oggi è primario emerito. Cosa ricorda con piacere? «Alcuni miei allievi sono diventati primari, l’ultimo l’anno scorso qui, il dottor Cheli. Poi  Bernardi, primario in Pediatria a Lecco,  D’Alessio a Milano, Alberti in cattedra a Brescia. Mi accompagnavano e imparavano, non ho mai avuto segreti: anche noi riceviamo qualcosa dagli altri e abbiamo il dovere di trasmetterlo. Adesso, per due o tre giorni la settimana, in sala faccio il secondo, aiuto, correggo se non condivido. L’intervento è una materia che si studia sul campo, fatta di decisioni istantanee. Bisogna avere la visione complessiva dell’intervento, specie nei casi complessi. E saper decidere, se quello che avevi previsto non può essere realizzato».

[Per leggere l’articolo completo, rimandiamo al libro
Il teatro della vita, Federico Buscarino, ed. Bolis]

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