Di Altro-Giornale di Carta

Cinque ragazzi e il referendum «Parlare di politica, finalmente»

Cinque ragazzi e il referendum «Parlare di politica, finalmente»
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Abbiamo chiesto a cinque ragazzi, collaboratori della rivista Altro-Giornale di carta, di raccontarci come hanno vissuto questo referendum, dentro di loro e tra di loro. Ne sono usciti pensieri davvero interessanti. Ve li proponiamo.

 

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Matteo Rizzi. Non è solo la tessera elettorale nuova di zecca, con uno, due timbri massimo, e nemmeno la disinvoltura dissimulata per darci un’aria più saggia ed esperta quando facciamo le cose da adulti. Questo referendum aveva qualcosa in più. Era speciale perché un ragazzo di 18-20 anni è fresco di studi sulla storia del Novecento, quella storia che non è ancora del tutto storia, che i libri raccontano in un modo, i padri con l’eskimo in naftalina in un altro, le madri democristiane in un altro ancora. Un ragazzo di 18-20 anni ha sentito parlare di Giolitti, di Mussolini, della Costituente del ’47-'48, di Berlinguer, di Craxi, di Aldo Moro, delle Brigate Rosse, della Stazione di Bologna, tutti nomi ed eventi che per un motivo o per l’altro sono diventati quasi leggendari, cristallizzati nei discorsi da grandi. Un ragazzo di 18-20 anni ha anche sentito i genitori e gli zii definirsi comunisti, democristiani, socialisti, liberali, addirittura fascisti. Tutto «era meglio prima», e anche noi che 18-20 anni li abbiamo nel 2016 ci stavamo cascando. Anche noi eravamo comunisti, democristiani, liberali, socialisti. Tutti sapevamo cosa avremmo votato negli anni Settanta e Ottanta. Ma alle urne imminenti non avremmo trovato nessun Berlinguer e nessun Craxi. Il Referendum ci ha salvato, ha aggiunto una postilla ai paragrafi dei libri di storia sulla Costituzione, ci ha fatto capire che la stessa commedia della Prima Repubblica è riproposta di continuo. Cambiano gli attori, i partiti di massa, ma non i ruoli. E la storia non smette mai di essere scritta. L’Italia si è risvegliata da un’apatia politica triste, nostalgica e sconsolata, grazie anche alla nostra generazione che, ora più che mai, ha voglia di Repubblica. Vogliamo anche noi i nostri Berlinguer, Moro e Craxi. E li abbiamo. Potrà anche far ridere, ma sui libri di storia dei nostri figli ci saranno anche loro: Renzi, Grillo, Boschi, Salvini... Già lo si può immaginare, il paragrafo sull’ascesa del M5S, quello sul governo Renzi (con il Jobs Act e il bonus cultura citati in neretto con la data tra parentesi), quello sullo storico Referendum Costituzionale del 2016. In fin dei conti, è meglio un’epoca problematica di un’epoca apatica. La storia siamo noi, e nessuno si senta escluso. Non è la più dolce delle consolazioni?

 

 

Tommaso Aresi. Per molti ragazzi nati tra il ’95 e il ’98 è stata la prima occasione di voto (non tutti hanno votato al referendum sulle trivelle) e sicuramente per noi ragazzi è stato il primo assaggio di quel che vuole dire poter votare, decidere senza farsi influenzare; per la prima volta la nostra opinione è valsa un voto. Sfogliando qua e là articoli di giornali diversi ho avvertito una certa tendenza a leggere negativamente la campagna referendaria. Chi ha vinto e chi ha perso. Io credo che il voto del 4 dicembre sia stato molto bello; con altri giovani come me abbiamo discusso di politica, finalmente, su più piani; dalle implicazioni che un responso positivo o negativo avrebbe avuto sul governo Renzi; sul merito della riforma, dal combinato disposto al munus (come il cane di Crozza). Ci siamo arrabbiati e ci siamo schierati, avremmo voluto scrivere “nì” su quella scheda, ma dovevamo scegliere e abbiamo scelto; ci siamo confrontati spesso con leggerezza, con il nostro linguaggio. Alcuni hanno fatto i volontari per la propria parte politica (personalmente conosco diversi giovani volontari del sì). In tutto questo – a mio parere – l’influenza dei partiti politici si è sentita poco. I nostri discorsi andavano per vie autonome. Abbiamo apprezzato poco – in generale – i contributi dei giornali, di solito faziosi, dai titoli roboanti, alla ricerca solo dello scandalo. Ho letto «Scrofa ferita», «accozzaglia», «disastro finanziario»... A leggere i giornali la consultazione sembrava qualcosa di terribile, uno scontro privo di merito, dove si fronteggiavano e si contavano le alleanze politiche. Io credo che non sia così, che questa visione negativa dello scontro politico sia poco aderente alla realtà, per lo meno alla nostra realtà giovanile. Penso che forse sia sbagliato ritenere i media il termometro dei sentimenti, delle opinioni, della realtà. Mi sono sembrati in verità molto lontani dal reale, pronti a rendere tutto negativo, a cercare il caso, lo scandalo. Ma annegando così in una noia totale.

 

 

Beatrice Marconi. Questo è stato il nostro primo referendum vero: voglio dire, tra le trivelle e la Costituzione la differenza è palese. Nell’aria (e soprattutto su qualsiasi social network) si respirava già da tempo una certa tensione, una voglia incontrollata di far valere la propria opinione e alla fine tutto questo ha contagiato anche noi. Ogni sabato, dopo la fine dell’estate, ci si incontrava al solito pub e a un certo punto c’era sempre qualcuno, sempre, che citava uno degli hashtag protagonisti di questi mesi: #bastaunsì o #iovotono. Bastava quello. La reazione non si limitava più, come altre volte era successo, alle risatine riservate alle cose degli adulti: era come se tutti avessero finalmente qualcosa da dire in più di un semplice motto e allora le discussioni fiorivano, animate, certo, ma mai rabbiose. C’erano quelli che erano andati agli incontri informativi, quelli che avevano sentito le opinioni di alcuni costituzionalisti, quelli che avevano letto il testo della riforma... Ci si perdeva quindi in ragionamenti, pronostici e consultazioni di fonti (con l’immancabile smartphone alla mano). Gli ambienti protetti in cui viviamo (la scuola, l’università, la casa dei nostri genitori) e l’infausta promessa alla nostra generazione (quella di un futuro praticamente inesistente) ci hanno resi liberi sia dalla rabbia sia dall’illusione di poterci aggrappare a qualcosa. Il momento più bello è stato la notte fra il 4 e il 5 dicembre: avevamo pareri diversi, ma eravamo tutti insieme nella stessa casa a guardare la Maratona Mentana con birra e pop-corn, anche se il giorno dopo c’era lezione. Il referendum è passato, ma a me è rimasto un puntino luminoso nel cervello: un’opinione. E la mia opinione non è “sì” o “no”, ma che la mia rimarrà sempre l’età migliore per votare.

 

 

Andrea Calini. Mi sembra di vivere perennemente in clima elettorale: se anche non si è prossimi alle consultazioni, il clima politico dagli scranni del Parlamento ai salotti dei talk show è sempre più polemico, parallelamente vuoto di contenuti ma abbondante di “faremo”, e dominato dalla dialettica esclusiva del noi-loro. E i pensieri che si affastellano nella mente di un ventiduenne laureando in filosofia sono di stanchezza e sfiducia, quando non si radicalizzano in ribrezzo e repulsione. Per l'ultima, lunghissima campagna referendaria ho messo nel cassetto queste considerazioni e ho seguito quasi quotidianamente lo sviluppo del dibattito penso più coinvolgente che abbia travolto la nazione negli ultimi anni. Ho letto giornali, settimanali d'approfondimento ed assistito ad un dibattito. Mi ha estremamente colpito come, nel maggiore dei casi, l'argomentazione adottata da incendiapopolo o rispettati analisti sia stata, a mio parere, orizzontale invece che verticale: difficilmente si è cercato di approfondire magari un singolo aspetto della riforma, che di per sé si presentava imponente, fornendo un quadro completo dei vantaggi e delle complicazioni, degli snellimenti e delle brutture. Troppo sovente il contraddittorio degenerava in beghe da bar o da strada, con parole sputate a tanti giri in volto all'interlocutore, riempite di dati, sondaggi e rivendicazioni partitiche e populistiche. Col risultato che al voto ci sono andate troppe persone confuse, vittime di letture unilaterali ed ideologiche. E questo da entrambe le parti, o, per meglio dire, barricate. Avrei preferito una penetrazione lenta e regolare nei contenuti della riforma. Ma ai contenuti si sono preferiti gli slogan. Tutto questo, ovviamente, con rare e preziose eccezioni, che riescono sempre a dare un'immagine un po' migliore di un paese in bilico tra ripresa e deriva. Ma non era finita la Prima Repubblica?

 

 

Ludovica Sanseverino. Il 4 dicembre 2016 gli italiani si sono riuniti alle urne per votare al referendum costituzionale. Il “no” ha vinto con il 59,11 per cento contro il 40,89 del “sì”. Eppure il mondo continuerà a scorrere esattamente come ha sempre fatto; in modo brutale, sanguinoso e malvagio. Come ho vissuto questa campagna referendaria? Personalmente male. Non era ciò in cui credevo perché ormai ho perso ogni tipo di stima nella politica e in chi la fa. Più che stima, temo di aver perso le speranze di poter creare qualcosa di veramente nuovo e senza corruzione. Non ci voleva questo. Non ora che abbiamo ancora tanti problemi irrisolti, ma si vuole comunque spendere, anche se non ce lo si può permettere, fior fiori di quattrini per una campagna referendaria, dimenticandosi di tutto il resto, dimenticandosi di chi ne ha bisogno veramente. In questo momento l’Italia non aveva bisogno di essere divisa. Tanti giovani si sono ritrovati a protestare, stanchi di essere assolutamente invisibili. Questa lotta è incominciata a ottobre di quest ’anno e in quasi tutte le città si sono creati collettivi di partiti dei due fronti. C’è chi urlava “sì ” e chi invece “no”, ognuno per pareri discordanti. Alla fine, arrivato il giorno delle votazioni, la maggior parte delle persone non sapeva davvero a cosa aggrapparsi; troppe problematiche, troppo caos. Credo che la maggioranza abbia votato “no” probabilmente perché erano tutti davvero troppo sfiniti per poter approvare qualcosa di nuovo. Erano tutti davvero troppo esausti anche per capire di cosa parlavano i due fronti e le varie motivazioni che ne conseguono. Quello che è stato urlato è stato un “no” di protesta, un “no” silenzioso e pieno di stanchezza. Penso che non bisogna né cantar vittoria né piangere la sconfitta. Dopo tutto questo mi sorge una sola domanda; ma in realtà, chi ha davvero vinto?

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