Dopo le "ribellioni"

A che cosa servono i tavoli Ocse

A che cosa servono i tavoli Ocse
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Sergio Cavalieri è prorettore della nostra università, è delegato al trasferimento tecnologico, innovazione e valorizzazione della ricerca. Coordina il tavolo Ocse per l’innovazione. L’Ocse è l’Organizzazione internazionale per la cooperazione e lo sviluppo economico. I suoi esperti vennero a Bergamo una dozzina di anni fa, fecero dei rilievi, diedero indicazioni. Non se ne fece nulla. Un paio di anni fa vennero chiamati di nuovo dalla nostra Camera di Commercio: nuova analisi, nuove indicazioni. Sulla base di queste, sono stati organizzati cinque tavoli di discussione su formazione, innovazione, economia, turismo e infrastrutture. Motori di questo impegno sono Camera di Commercio, Provincia, Comune, Università, Confindustria e Imprese & Territorio. Fin qui tutto bene: se non che, nelle scorse settimane, prima Confindustria, poi Imprese&Territorio e infine anche gli artigiani hanno annunciato l’idea di volere dare vita a un proprio centro per lo sviluppo o Innovation hub, scavalcando di fatto il lavoro che viene fatto dai tavoli coordinati dall’università.

Professor Cavalieri, che cosa sono questi tavoli Ocse e che cosa fanno?
«Nascono dal progetto Bergamo 2035. Si basano sulle indicazioni date dall’Ocse e cercano di individuare delle proposte concrete per promuovere il nostro territorio».

 

 

Ma l’Ocse che cosa aveva detto?
«Gli inviati Ocse hanno segnalato punti di forza e di debolezza, ci hanno dato la traccia su cui lavorare, a tre livelli: strutturale, infrastrutturale e di governance. Vale a dire le dotazioni di linee produttive, fabbriche, uffici, imprese; strade, ferrovie, scali intermodali, aeroporti, autostrade digitali, scuole e via dicendo; organi e modi per governare la realtà economica e sociale».

Ma in concreto, l’Ocse che cosa ha detto?
«In estrema sintesi ci ha detto che a Bergamo abbiamo un potenziale fortissimo, ma che ognuno pensa per sé e che questo ci limita molto. Secondo: ha detto che l’innovazione va a rilento considerando brevetti, nuove imprese (start up) e sviluppi nuovi di vecchie imprese (spin off). Ci hanno detto che il nostro sistema di formazione è molto frammentato, che serve una piattaforma formativa, cioè una base comune ai vari istituti tecnici, professionali, aziendali, regionali. Ci hanno detto che dobbiamo coinvolgere enti, scuole, università per realizzare questa piattaforma».

I tavoli di discussione sono cinque.
«Sì. Io coordino quello sull’innovazione. Si tratta di vedere quali sono le opportunità di sviluppo nel mondo di oggi, globalizzato. Oggi rispetto al passato si vive certamente meno di ferro e più di bit. Un tempo era più importante la manualità. Ma la possibilità di fare impresa è intatta ancora oggi. Le grandi imprese, come la Persico, la Tino Sana, anche la Brembo, sono nate dal poco o dal niente. E sono grandi realtà. Miracoli degli Anni Cinquanta e Sessanta. Ma lo spazio per nuove imprese esiste ancora oggi. La scommessa è formare nuova imprenditorialità. Servono idee, serve lavoro: soprattutto servono conoscenza e determinazione. Oggi più che mai dobbiamo diventare imprenditori di noi stessi, prima di tutto. Non è più il mondo del posto fisso a vita, il cambiamento è continuo, a volte turbolento».

 

 

Non ci sono differenze rispetto al passato?
«Ci sono, eccome. Oggi viviamo nella globalizzazione, dobbiamo guardare ad ampio raggio, su più mercati, la realtà è più complessa rispetto a cinquant’anni fa quando l’ex operaio metteva su l’aziendina tessile che lavorava conto terzi per il suo ex padrone. I nostri tavoli cercano strade per favorire l’imprenditorialità, per svilupparla, per renderla sostenibile anche dal punto di vista finanziario. Capire come connettere meglio mondo della finanza e imprenditoria. Perché l’imprenditore ha bisogno di mezzi finanziari. Cerchiamo di individuare filoni di sviluppo. Per esempio quello medico su cui punta l’università, quello meccanico, quello tessile. E cerchiamo di imparare come sia possibile fare squadra. In media, il tavolo si ritrova una volta al mese».

Si legge di centri che vengono definiti digital innovation hub. Di che cosa si tratta?
«Sì, se ne parla tanto anche per via del piano governativo, quello del ministro Calenda, che prevede finanziamenti. Si tratta di luoghi che coinvolgono le aziende in un processo di trasformazione tecnologica per restare al passo con i tempi. Vista la velocità dei cambiamenti, questi centri risultano importanti, soprattutto per le piccole e le medie aziende. Nuove tecnologie industriali, ma anche relative ai mercati. E per cercare di capire delle formule come “Internet delle cose” oppure l’uso di strumenti tipo stampanti 3D. Servono o non servono a una determinata azienda? Questo lavoro di continuo aggiornamento diventa poi impegno per la formazione e per il trasferimento della tecnologia alle aziende».

Si parla in maniera insistente di industria 4.0. Che cosa ne dice il vostro tavolo Ocse?
«Industria 4.0 è un nome, uno slogan, un’operazione di marketing nata in Germania tre o quattro anni fa e da settembre importata anche in Italia. Un modo di dire che poi sbiadirà. Sta comunque a significare il forte cambiamento tecnologico che porta al cambiamento della vita, delle abitudini, in fabbrica come a casa. Non è semplicemente la robotizzazione della produzione. Sono i nuovi automatismi, le nuove tecnologie che comporteranno cambiamenti nella vita».

Per esempio?
«Per esempio penso che fra vent’anni tanta gente non avrà più l’auto di proprietà e quindi i problemi di parcheggio saranno meno seri rispetto a oggi. Ci saranno le auto a guida computerizzata: quando ne avrai bisogno chiamerai e l’auto verrà a prenderti e ti porterà dove vuoi. Senza spese di personale. Un cambiamento forte sta già avvenendo con le biciclette a pedalata assistita, un vero boom, uno scenario interessante. E nuovo lavoro. Poi diventerà sempre più importante il lavoro remoto, da casa, lo smart working. Anche questo è società 4.0, se vogliamo dare etichette».

Su questi tavoli dell’innovazione, hub di nuove tecnologie, è scoppiata la polemica. Perché?
«Io non entro nel merito, dico soltanto che sono questioni politiche e anche di personalismi. Il nostro è un territorio ricchissimo di attività e di energia creativa. Forse c’è troppa energia! La polemica riguarda il governo dell’innovazione. I contenuti li abbiamo già in buona parte. Ricordo, per esempio, che esiste l’agenzia Bergamo Sviluppo che fornisce tecnologia, formazione e accompagnamento per le piccole imprese, nasce da Camera di Commercio, Università e consorzio della meccatronica, Intellimech. L’università al Kilometro Rosso possiede un centro di trasferimento di tecnologie che collabora con le aziende presenti... non siamo fermi, anzi. Ma occorre incanalare tutto questo ribollire di energie verso direzioni costruttive».

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