Le ringraziamo, davvero

Dieci donne raccontano il cancro

Dieci donne raccontano il cancro
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Dieci donne hanno accettato di raccontare alcuni aspetti del cancro, dalla scoperta della malattia alle cure, dalle ingiustizie ai più bei ritratti di vita quotidiana. Le ringraziamo per averci regalato un pezzo della loro storia e i loro sentimenti più veri.

Cristina, 53 anni: L’approccio che ho avuto è sempre stato quello di parlarne, anche con persone con le quali entravo in contatto per poco, perché magari il calvario che ho passato io poteva essere utile a qualcun altro, anche a livello logistico, di informazioni sanitarie. Come ti sei accorta? Perché? Che strada hai fatto? Perché poi alla fine, quando hai una malattia rara come la mia, può servire.

Il mio è un sarcoma dei tessuti molli e la mia storia è cominciata a giugno dell’anno scorso: ero al mare, non avevo nessun disturbo. Ho sentito come un rigonfiamento leggero dietro la coscia, come se il muscolo fosse contratto. Tornata a casa, sono andata da un dermatologo, a pagamento, perché la sanità non ti consente di fare le cose di fretta. Mi hanno detto di fare una risonanza, da cui è risultato un tumore di 7 centimetri. Siccome è un tipo di tumore che si sposta facilmente nei polmoni, l’esito della seconda tac mostrava che avevo dei noduli ai polmoni, ma non riuscivano a capire di che natura fossero. Per me era come vedere una macchina che viaggiava verso di me, ma senza sapere se mi sarebbe venuta addosso o se avrebbe svoltato poco prima di travolgermi. Quella era la mia sensazione rispetto ai noduli al polmone: non potevo sapere se fossero metastasi o cosa, sapevo solo che c’erano e avrei dovuto aspettare un mese, per capire la loro natura. Alla fine, hanno detto che erano lì da tempo, e che non erano un problema. Poi, dopo la chemioterapia, c’è stato l’intervento. E anche se il problema dovrebbe essere risolto, tu, nella testa, non riesci a sentirti guarita. Ma nello stesso tempo è come se facessi più fatica a ricordare che a dimenticare. Tanti particolari li ho dimenticati, i miei familiari invece no. Certe cose le ho rimosse: forse è un modo di difendermi, altrimenti resti attaccata a quelle cose e non riesci più a liberartene, se non nel tempo.

La mia esperienza non è stata una brutta esperienza, malattia a parte, intendo. Ricordo solo un periodo veramente orribile, quando ero senza capelli. Ho un carattere che me ne frego, quindi sarei uscita senza niente addosso. Ma è la gente che ti compatisce, che ti dà fastidio; certo, sarei stata così anche io, avrei pensato anche io “Poveraccio, quello cosa sta passando”. È un commento che ti viene spontaneo, ma lo vedi negli occhi delle persone. Il mio compagno non ne voleva sapere di questi foulard, e così, alla fine ho preso la parrucca: l’ho presa per lui, ma devo ringraziarlo. Una volta che indossi la parrucca torni ad essere nessuno, non hai più nessuna caratteristica che rimandi al tumore. L’ho tenuta un bel po’. Io avevo i capelli leggermente mossi prima, mentre guardami ora sembro Minnie Minoprio. Era una cantante degli anni Settanta, ma tu sei di un’altra generazione, non puoi ricordartela. La mia parrucca era corta, non stavo nemmeno male, l’ho pagata 300 euro. Mi avevano detto che potevo detrarre la spesa dal 730, ma non sono riuscita a farmela rimborsare perché al centro caf mi hanno detto che ci voleva l’impegnativa del medico. Quindi una fa la chemio, si ritrova senza capelli, e ci vuole l’impegnativa del medico che dichiari che hai bisogno della parrucca?

Comunque, tutta la malattia, più che un senso di depressione, l’ho vissuta con la disperazione. Nell’attesa dei referti, quando pensi che forse è il tuo momento, la parola giusta è disperazione. La mia concezione di vita è cambiata tanto, perché fino al giorno prima della lettura della diagnosi, ero immortale: dovevo morire, certo, ma chissà quando. Non mi ponevo nemmeno l’idea della morte. E ancora oggi, penso che sia meglio vivere nell’incoscienza, vivi meglio. Non che quest’idea mi tormenti: ma è come se si fossero formate delle valli, nel mio cervello, e i pensieri fossero fiumi che si ricollegassero sempre lì, finissero sempre in queste valli, in automatico.

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Veronica, 20 anni: nel percorso del tumore, una delle cose peggiori è stata la mia esperienza lavorativa. Finito il Liceo avevo deciso di cercarmi un lavoretto, e avevo trovato un impiego come commessa in un centro solarium. Ma quando è iniziata la trafila degli esami per la terapia e sono dovuta stare a casa in malattia, mi hanno carinamente chiesto di portare le dimissioni. Ho deciso però di non farlo, e di mettermi in aspettativa, pur senza ricevere uno straccio di soldi; l’ho fatto giusto per il gusto di dargli fastidio, per vendetta, visto che comunque sarei risultata sotto contratto e il commercialista avrebbe comunque dovuto risolvere delle questioni.

È stato il mio modo di vendicarmi: mi avevano detto che non potevano tenermi in malattia per troppi giorni con assenza ingiustificata, e il messaggio mi è arrivato proprio mentre ero ricoverata, e sotto morfina. Io gli ho detto che la mia assenza mi sembrava più che giustificata e gli ho spiegato che se avessero voluto, mi avrebbero dovuto licenziare loro, e che io non l’avrei fatto. Sei libera di riderci su, o di esserne indignata. Io, ormai, ci rido su. E mi concentro sul fatto che sto ricominciando: tra due settimane me ne andrò a Riccione, a dicembre andrò a smontarmi sullo snowboard, ho iniziato scuola di parrucchiera e ho ripreso a giocare a pallavolo…è un ottimo modo per rassodare il fondoschiena.

Donatella, 47 anni: Ho avuto il tumore al seno, l’ho scoperto nell’ottobre del 2012, quando avevo 45 anni. Facendo la doccia, mi sono toccata e ho sentito questo nodulo. Quando me l’hanno diagnosticato io lo sapevo già che avrei avuto il tumore, perché della mia famiglia, praticamente, mancavo solo io. E anche se mi avevano detto che con sei figli sarebbe stato difficile che mi capitasse, quando sono andata a fare il controllo ho pensato chiaramente: “Ok, ci sono dentro”. Ma aspettarselo non cambia le cose, è stata durissima comunque. Ti senti rabbia. Ne avevo talmente tanta, di rabbia, che avrei spaccato tutto quanto. I bambini sanno cosa ho avuto, certo. Hanno avuto paura di perdermi. Jonata, credo, più paura di tutti gli altri. All’epoca aveva 9 anni e a scuola raccontava tutto, ma l’ho saputo solo dalle insegnanti. Con me faceva il bullo, mentre in classe, chiedeva alle maestre se di cancro si può morire.

Durante le chemioterapie, poi, il mio ex marito ha pensato di andarsene con un’altra donna, e quindi loro hanno dovuto subire anche l’abbandono del padre. Se io non li avessi avuti, non credo sarei riuscita a superare tutto. Il pensiero di avere sei figli ti costringe a non mollare il colpo, in fondo. Anche perché io amo vivere, io voglio vivere e ci sono ancora tante cose che vorrei fare. Ho 47 anni, e di acqua sotto i ponti deve passarne ancora tanta. Vorrei andare a Roma per esempio. Voglio andare a trovare Papa Francesco, mi piace tanto quel papa lì!

Adesso, comunque, non mi sento più arrabbiata, tanto ho capito che non serve a niente. Sono più arrabbiata per i miei bambini, perché in fondo, stanno pagando loro. I maschietti, pensavo fossero troppo piccoli per capirlo, invece quando sono andata ai colloqui con le maestre mi sono resa conto che sapevano, a modo loro stavano soffrendo. Mi hanno detto che Jonata piangeva, che Sebastian non andava bene a scuola. Così ho capito che avevano bisogno che io parlassi di più con loro…ho cercato di cambiare, di non piangere e si sono aperti con me. Per sfogarmi aspettavo ad uscire con i miei amici, e ringrazio Dio di averne avuti tanti, tanti tanti amici. Coi parenti, invece, è stata fatta pulizia: il mio ex marito ha quattro sorelle e quattro cognati: è più di un anno che non parlano con i loro nipoti. Quindi i miei figli sono proprio soli. Certo, hanno me: e io sono tanta. Sono tanta, te lo assicuro.

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Michela, 40 anni: Chi la vede dal di fuori, appena sente la parola tumore, ti ha già messo al cimitero. Probabilmente sarebbe stato così anche per me se l’avessi vissuto con un familiare, ma quando l’hanno diagnosticato a me la reazione è stata diversa, forse per spirito di sopravvivenza. Avevo 35 anni e me ne sono accorta da sola, con l’autopalpazione. Io ero fuori da tutte le casistiche, non ho fatto terapie ormonali, non ho familiarità. Ma vivevo con un uomo divorziato con cui andava tutto bene, salvo il fatto che non volesse avere figli, e la cosa mi faceva soffrire. Così, ho sempre collegato le cose, e mi sono convinta che quando si sta molto male, anche il corpo è meno pronto a combattere. Comunque, quando ho incontrato il primario per l’esito, mi ha dato la busta, solo poche righe. La sigla che ti salta all’occhio è CTM: cellule tumorali maligne. E ti basta per tutto il resto.

Niente, rimango così. Me lo immaginavo, ma lì non sapevo che fare. Allora stavo ancora con quell’uomo, e ironia della sorte, durante il percorso della malattia, lui si era convinto ad avere bambini: ogni volta che si andava dal medico chiedeva: “Ma dopo potrà avere figli?”. Con la chemioterapia è iniziata la ricerca della parrucca, il mio ex compagno conosceva un negozio a Milano. Io, insegnando, non avevo mai pensato di andare in giro solo con la bandana. La cosa che nessuno mi ha detto, è l’iter dell’esenzione, ed è una cosa che ho scoperto dopo. La pecca di chi si ammala è che i medici tante cose non te le dicono, danno per scontato che tu le sappia, o non ci pensano. E anche quando si parla di chemio, per esempio, la gente non sa mai cos’è. Mi capita di incontrare persone che devono affrontarla per la prima volta, cerco di tranquillizzarle perché la grande domanda è “Ma in fondo, la chemio, che cos’è?”. In fondo? non è che una flebo, e dura dieci minuti, più tutta la preparazione. Altre cose, poi, non ti vengono dette: nessuno dei medici che ho visto, mi ha mai detto che l’alimentazione avesse una certa importanza per la terapia. Ho scoperto da sola che gli zuccheri alimentano il tumore, che l’acidità alimenta il tumore, che gli zuccheri sono in più elementi di quello che si pensi. Il sospetto peggiore è che qualcuno ci guadagni.

Quando hai i capelli è un po’ come camuffarsi. Senza capelli, invece, davanti allo specchio sei completamente tu, ti guardi per quello che sei, è come essere completamente nudi. È questo quello che ho provato quando mi riflettevo. Io sono tornata a scuola subito, mi assentavo solo nel momento della chemio. Qualche mamma dei miei bambini mi ha ringraziata, per essere stata d’esempio e per aver continuato la mia vita di sempre: ma l’ho fatto per un’esigenza mia. Perché andare a scuola mi permetteva di sentirmi normale, di continuare a sentirmi quella che er, prima. Fare le cose come se nulla fosse cambiato mi aiutava a vedere meglio la fine del percorso, a pensare che tutto sarebbe finito, sarebbe finita la terapia, sarebbero ricresciuti i capelli, e che tutto sarebbe tornato come prima.

A dire il vero, quando sei dentro questo vortice di controlli, quasi non hai tempo di pensare se ce la farai o se non ce la farai. Un tumore è un tumore, ma non è rispetto al dolore fisico, è che non sai quanto vivrai. Ti viene da dire che devi fare ancora un sacco di cose. La cosa buona di tutto questo marasma, è che ho imparato a godermi di più la vita: oggi sono a Rovereto, domani me ne vado in Val di Fiemme. Ho imparato a vivermi il presente, insomma.

Katia, 39 anni:  Ho scoperto questa bellissima notizia a novembre del 2011, ce l’avevo al collo dell’utero. Ero rientrata da Roma da un paio di giorni, era il 23 ottobre. Mi chiama la mia ginecologa e mi dice “c’è qualcosa che non va”. È successo tutto rapidamente, il 7 dicembre ho iniziato la chemio quindi, neanche il tempo di capire cosa stesse accadendo. Ho fatto queste sei chemio, una volta alla settimana; però, inizialmente, non mi hanno fatto nulla di effetti collaterali, a parte un’iperattività il giorno dopo, che alle 5 della mattina tiravo giù le tende e mi mettevo a tinteggiare casa. Una roba che avrei potuto spaccare il mondo: tant’è che ero preoccupata che non avessero fatto effetto. Invece, poi, in qualche modo gli effetti sono arrivati: l’ultimo dell’anno dovevo cantare, ma il giorno prima mi era uscito un mal di gola fotonico, perché la chemioterapia mi aveva bruciato le mucose. Ma avevo promesso al mio collega che ci sarei stata, quindi, tra un ochi e una tachipirina, ho fatto la mia serata. Io canto da quando ho 5 anni, e posso dire che la musica, in tutti questi giri, mi ha salvato. O comunque, mi ha dato la forza di pensare: “Ok, preparati, vestiti e vai”.

L’8 febbraio, poi, ho fatto l’intervento, piuttosto invasivo: 33 punti sulla pancia, è la mia cicatrice di guerra. Però la trovo bella, mi piace, arreda. E durante tutto il percorso della malattia, non so se era per esorcizzare la cosa, ma ho sempre parlato molto del problema, perché è una cosa che è arrivata nella mia vita, e avevo intenzione di renderla il più normale possibile. Il parlare di questa cosa mi aiutava ad accettarla. Inoltre, personalmente a me, è cambiato l’approccio con le persone malate: prima facevo come tantissimi, se sapevo che questa persona aveva scoperto questa tal malattia iniziavo ad evitarla. Non la chiamavo, speravo di non incontrarla. Ma credo sia una cosa normale, è una forma di protezione verso te stessa. Tu sai quanto male stai, ma gli altri non lo sanno, per questo paradossalmente per loro c’è una difficoltà in più. Mio marito sta male, quando mi vede star male: e dentro di me penso “Effettivamente lui non può sapere cosa sto provando, quanto sto male”. Mio figlio di quattro anni, invece, quando gli ho mostrato la cicatrice sulla pancia, ha risposto: “Bellissimo! Papà, tu l’hai visto il taglietto della mamma?”.

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Veronica, 26 anni: Io mi sono ammalata l’anno scorso, ad aprile. Mi hanno trovato un tumore al femore destro, dopo una serie di accertamenti, dopo che il mio dottore di base, classico dottore di base che è meglio non trovare, mi aveva ripetuto che non era niente, che il ginocchio mi faceva male perché non avevo voglia di andare a lavorare, che avevo la febbre perché il termometro non funzionava. Comunque, ad aprile mi hanno diagnosticato questo osteosarcoma di alto grado al femore.

L’obiettivo era fare le chemioterapie per ridurre la massa tumorale e procedere con l’operazione intesa come protesi interna, per cui avrebbero sostituito l‘osso e poi, avrei fatto le chemio di prevenzione. Ma strada facendo si sono accorti che il male non reagiva con le terapie, la massa aveva attaccato le parti molli, allora mi è stato amputato l’arto. Dalla gente esterna, in questo senso, ho avuto una solidarietà e una vicinanza che nemmeno io mi sarei aspettata di avere, soprattutto dal punto di vista economico, come aiuto per il fattore della protesi.

Quando ho iniziato a girare per sentire dei preventivi per la protesi, mi sono chiesta “come faccio a 26 anni a permettermi una spesa del genere?”; perciò, a partire dagli amici più stretti, si è man mano espansa la cosa ed è stata fatta una colletta. Nemmeno per quanto riguarda il lavoro ho nulla da dire: ora sono in aspettativa ma mi hanno detto che sia che io ci metta due anni sia che ce ne metta dieci, il mio posto resterà assicurato. Invece, è stato strano capire come potevano viverla due bambine di 8 e 10 anni, le mie sorelline. Non è mai chiaro che concezione abbiano della malattia: sta di fatto che un giorno ci siamo accorti che la più piccola aveva tolto, a tutte le sue bambole, la gamba destra, e che le accompagnava in giro per la stanza, per insegnargli a camminare. Per quanto riguarda mio padre, invece, se puoi citarlo, il suo motto è uno solo: nella vita bisogna avere culo.

Valeria, 33 anni: La parola cancro fa paura ed è una cosa che uno non si aspetta che gli capiti mai nella vita. Non te lo aspetti come me a trent’anni, e non te lo aspetti mai. Io ho fatto una scelta: di non dire nulla a nessuno. Perché non volevo che la gente mi guardasse con pietà. Sapevo che avevo davanti un anno da incubo, e volevo che la mia vita continuasse per quanto fosse possibile: volevo andare al parco col mio bambino senza che nessuno mi guardasse, controllasse se ero ingrassata, se ero dimagrita, se avevo la parrucca, se non avevo la parrucca, e tutte queste cose qua. Sono scelte personali; qualcuno decide di andare in giro con la testa rasata, perché può essere un segnale per aiutare gli altri.

Io l’ho avuto al seno, il tumore. Avevo sentito come un sassolino, e ho avuto un presentimento, e ho iniziato a spiegare al mio ragazzo che avevo qualcosa. Me lo sentivo, non so come mai. Me l’hanno detto il 31 marzo, il mio bambino aveva 14 mesi, e mia mamma mi aspettava fuori dallo studio con lui. Sono uscita e le ho proprio detto “Ho un tumore”. Quello è stato il momento in cui sono stata più agitata, come se davvero non avessi più sentito la terra sotto i piedi. Anche se in realtà a me sembra di non essermene mai resa conto. Ma oggi, dopo quasi un anno, mi guardo indietro, e faccio ancora fatica a realizzare quello che ho passato: è una parola talmente grossa, che probabilmente, la testa, per spirito di sopravvivenza, ti fa sempre credere che non sia realmente successo a te. Mia mamma è una persona molto apprensiva, ma non esprime molto quello che sente: però è una mamma, e io, adesso, sono una mamma e immagino solo che qualsiasi cosa ti accada, il primo pensiero è che ti possa accadere di tutto, purché non accada ai tuoi figli.

Io, personalmente, l’ho presa come se la vita volesse farmi fermare un attimo, in tutti i sensi: sono sempre stata di corsa, così ho avuto l’obbligo di prendermi del tempo per me. Il lato positivo della malattia è che ti dà una svegliata sulla vita. Tu puoi ripeterti che la vita è una, ma finché non ti capita una cosa così, non riesci a capirne il senso.

Fisicamente è stata faticosa tante volte, mio figlio è piccolo, e ha bisogno che tu sia sempre contenta. Forse ha capito qualcosa, perché lui è bravissimo, e secondo me è bravissimo anche per la situazione. È come se sapesse che non può farmi disperare. Anche quando mi sono rasata i capelli, per non vederli cadere, ho avuto paura per lui, che si spaventasse, che non volesse vedermi con i capelli rasati. Invece ha cominciato a portarmi la parrucca ogni volta che c’era da uscire. Ogni volta che ci si preparava ad andare fuori, lui correva a prendermi la parrucca, era diventata una tradizione. Una volta ha visto al centro commerciale un manichino senza capelli e ha cominciato a dire “Ciao mamma!”. Gli ho detto di stare zitto, e ho pensato che fosse una fortuna che ancora non potesse parlare bene. Quando hai un bambino la tua vita stessa diventa più importante: forse sarei più pronta a morire se non avessi un bambino, o forse no, non lo so…Però mi sono messa in testa che anche se io non ci fossi, lui crescerebbe lo stesso. Però io sono una mamma, e dal mio punto di vista solo io posso dargli il meglio. Il primo pensiero di tutto è lui. Mentre facevo le chemio pensavo a quando andrà a scuola, e automaticamente ho pensato “Ma io ci sarò quando andrà a scuola?”.

Nascondere la cosa è una cosa che ho fatto fino adesso, comunque, ora non me ne importa più. Aspetterò un’altra settimana che i capelli ricrescano ancora un po’, poi uscirò e gli altri lo sapranno e non mi interessa. Sto quasi aspettando il momento in cui uscirò senza capelli, e non so come mai, lo vedo come un momento felice.

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Moira, 40 anni: La mia esperienza è stata abbastanza singolare perché a parte le amicizie, non avendo un compagno, non c’è stata una persona che mi sia stata vicina dall'inizio alla fine. Mi sono state vicino alcune colleghe, ma una persona che mi abbia seguito dall'inizio alla fine non c’è stata, e questo mi ha costretta a trovare una grande forza in me stessa. Ho quarant'anni, e tutto è iniziato a settembre del 2013. Ho sentito un nodulo, per caso, ma non pensavo che fosse una cosa del genere. Invece è risultato un carcinoma infiltrante, g3. Smarrimento e incredulità sono state le prime sensazioni, perché non pensi che ti possa capitare una cosa così, perché io mi sentivo bene, non avevo niente. Quando realizzi, ti chiedi dove andare, e pian piano, cerchi di prendere in mano la situazione. Ho fatto prima la terapia, poi, con l’intervento, mi hanno asportato il nodulo, e i controlli successivi hanno mostrato che c’era una metastasi ai linfonodi. Quindi mi hanno fatto la dissezione ascellare e ho fatto le radioterapie. Ora sto cercando di reagire anche psicologicamente.

Ho passato un anno che, se mi guardo indietro, ho la sensazione di essere sopravvissuta ad uno tsunami. Credo di aver tirato fuori più forza di quanto pensassi di avere. Invece da qualche parte la trovi: dev’essere questo attaccamento alla vita, pensare che non possa realmente finire così. Mi conoscono come una persona abbastanza tranquilla…E invece ho stupito…e mi sono stupita! Dalle persone attorno ho visto reazioni completamente diverse. Da certe persone che conosco da anni, ho visto il gelo più totale, indifferenza. Altre persone che invece conoscevo da poco, con cui spesso avevo passato solo una giornata insieme, ho avuto un aiuto e un supporto morale prezioso. Se prima hai qualcosa di offuscato a livello di amicizie, è come se questa malattia togliesse via tutta la nebbia e ti facesse vedere ben limpida tutta la tua vita; anche dal punto di vista lavorativo, ho scoperto cose che non andavano.

Prima che mi capitasse quello che mi è capitato, stavo vivendo un sacco di tensioni, con le colleghe, con i clienti…e la cosa mi stava logorando. Così ho scoperto che è il mio lavoro che non mi soddisfa. Io sono portata più per l’aspetto umanitario, e ora sto pensando di fare volontariato. Nella vita qualcosa che ti piace, che ti soddisfi, la devi fare. Qui a Bergamo, a differenza di altre città, è molto forte la mentalità del lavoro, quest’idea ce l’abbiamo inculcata. E se non avessi avuto il tumore, mi sarebbe rimasta addosso e io non sarei riuscita a cambiare prospettive, a decidermi a dedicare più spazio per quello che mi piace fare. L’ambito umanitario era una cosa che avevo dentro di me e che probabilmente la routine aveva schiacciato: ma la malattia ti costringe a guardarti dentro e secondo me è arrivata anche per questo. Per dirmi: fermati un momento.

Silvia, 25 anni: Io ho scoperto che c’era qualcosa che non andava una notte in cui ho avuto forti dolori intercostali, e sono andata in pronto soccorso a Zingonia. Lì, per essere sicuri, mi hanno fatto fare una tac e  dopo due giorni hanno telefonato a mia mamma, mentre io ero al lavoro, le hanno detto che c’era qualcosa che non andava, e che sarei dovuta tornare. Tempo dopo, mi sono ricordata che uscendo dall’ospedale, avevo incontrato un mio amico che ci lavorava, e ricordo di avergli detto “Ma sto morendo?”. Non so se l’ho detto scherzando o se fossi seria, ma ho riflettuto tanto su quella frase, perché non dico queste cose solitamente. E ringrazio il cielo che il medico mi abbia telefonato; se quella notte avessi incontrato qualcuno di inesperto che non avesse fatto caso ai miei dolori intercostali, forse a quest’ora non ne avrei ancora saputo nulla. Il mio medico di base stesso ha ammesso che se fossi andata da lui a dirgli che avevo un forte prurito e un forte dolore alla spalla, non avrebbe richiesto accertamenti.

Quando sono tornata per sapere cosa ci fosse, ci hanno fatto mettere in uno stanzino, ero con mia mamma e mio papà: e hanno iniziato col dirmi che per me, sarebbe cambiato qualcosa. Mi ha detto che era una malattia da cui si guarisce, che avevo un linfoma, che è quello che avevo, che è quello che…ho, in fondo. Io guardavo fissa il dottore, non sapevo cosa fosse un linfoma, non riuscivo a dire niente, sentivo solo le lacrime che salivano, pian piano. Il medico ha parlato di un cambiamento di vita del 10%: la mia vita è cambiata completamente. Poi loro ti danno un minimo di speranza. Da lì, ho fatto tutti gli esami per circa tre settimane, e penso sia stato il periodo peggiore, perché non sai cosa aspettarti, ti fanno cose dolorose. Poi ho fatto la congelazione degli ovociti, per la fertilità.

Di situazioni spiacevoli, sì, ne ho passate alcune. Ci sono stati comportamenti a cui non sono riuscita a trovare il senso: per esempio, una volta sono stata al bar del paese, è un bar che frequento da sempre, dove conosco tutti. E indossavo il foulard. Sta di fatto che, mentre passo, sento un uomo sulla quarantina dire a voce piuttosto alta “Se gala chela lé sul cò?”(cos’ha quella in testa). Ricordo che mi si è gelato il sangue nelle vene, ma non sono riuscita a dire nulla. Ho solo scritto ad una mia amica, che voleva fare qualcosa, probabilmente una sfuriata, ma le ho chiesto di lasciar perdere perché alla fine capisci che è tutto inutile. In fondo, devo dire che nella malattia ho scoperto anche un sacco di belle persone, in ospedale. E solo adesso che l’ultimo esame è andato bene, mi rendo conto di quello che ho vissuto. Ma, paradossalmente, non mi rendo conto del fatto che ne sono uscita: la prima cosa che ho fatto quando mi hanno detto che il controllo era andato bene, è stata mangiare un krapfen, perché durante la terapia non potevo toccare la crema. E la sera stessa, invece, sono uscita a mangiare il sushi, ho recuperato tutto! Quel giorno è stato martedì 28 ottobre. Il giorno della mia rinascita.

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Cristiana, 45 anni Ho quarantacinque anni, mi chiamo Cristiana. E l’anno scorso in aprile mi sono scoperta questo nodulo al seno. Sono stata operata, mi è stato tolto, insieme ad una parte di tessuto attorno. È risultato che anche nella parte restante di tessuto c’erano delle cellule tumorali, non lo stesso tipo di tumore, che però dà adito a preoccupazioni. Me lo sentivo, sì. Perché la mia famiglia ha una storia di questo tipo: mia madre e mia sorella l’hanno avuto entrambe. Me lo sentivo nella forma “a me non succederà” e nella forza del fare sistematicamente scelte diverse da quelle che loro avevano fatto.

Io sono vegetariana da anni, non fumo, faccio moto, vivo in campagna, eppure…la componente genetica si è rivelata essere più forte di tutte le componenti positive che puoi avere attorno. E ho sempre pensato, credendo che non mi sarebbe venuto, che se avessi scoperto di avere un tumore, mi sarei molto arrabbiata. Ma quando è successo, la rabbia non è stata tra le mie corde. E questo mi ha molto sorpresa: la prima sensazione è stata di smarrimento. Poi ho pensato ai miei figli, alla preoccupazione del loro futuro senza di me e al fastidio di pensare che ci sono ancora un sacco di cose che vorrei fare.

Quando si hanno 20,25,30 anni ti dicono che è a 40 anni che si entra nel fiore della vita, e tu pensi che sia un pensiero che dicono i vecchi. Ma di fatto, acquisti una consapevolezza che è diversa. A muovermi, comunque, non è stata la rabbia, ma un’incosciente serenità che ha guidato un po’ tutto. Tanto che i miei figli non si sono spaventati, nessuno delle persone che erano attorno a me si è davvero spaventata…o meglio, erano spaventati, certo, ma nessuno è entrato in panico, rispetto a questa cosa, perché, mi hanno detto dopo, ero talmente serena da non lasciare agli altri il permesso di essere terrorizzati. E poi, ho sentito un bombardamento affettivo incredibile: io sento attorno una forza d’amore così potente nei miei confronti che…io, come molti credo, mi sono sempre detta “Sono brutta, cattiva, antipatica, non sono capace di fare questo, di fare l’altro”. Poi di fatto sapevo di aver scelto di vivere in un certo modo, e di aver creato attorno a me delle esperienze. E tutte queste esperienze, bum, mi sono tornate indietro. Mi hanno talmente tanto nutrita d’amore che ad un certo punto ho avuto bisogno di trovarmi da sola, per mettere insieme i miei pensieri. Io sono un po’ spavalda devo dire, e uno dei modi di essere guerriera è offrire il tuo sorriso come un’arma. Tanto è vero che non ho mai messo la parrucca: ho sfoggiato questa bella zucca e sfoggiato la mia malattia. Ma non era uno sfoggio arrabbiato, e forse questo ha fatto sì che ricevessi energie positive.

Come ho spiegato a mio figlio della malattia? A un bambino di cinque anni si spiega che la vita è così: la mia metafora personale è l’albero e questo ti offre un sacco di spunti per spiegare ai bambini che si nasce, si cresce, si muore e che questo è il nostro percorso. Gli spiegavo che certi giorni la mamma stava bene, e che altri gironi, invece, stava male e quindi mi diceva “Sì, sì…corro solo a darti un bacio!”. In famiglia ne parliamo, con un po’ di serietà, di tristezza quando mi viene un po’ di tristezza e con un po’ di ironia perché finché si è vivi, si è vivi. Capisco che è una maschera anche affrontare tutto sempre coraggio, certo, e che concedersi il lusso della paura non è facile. Disgraziatamente, poi, non ho il dono della fede, il dono dell’abbandono totale. Non credo in Dio, no: ma credo nella possibilità della vita, che la vita abbia senso di per sé.

Quando è arrivato il momento di far vedere ai bambini della mia scuola che mi ero rasata i capelli, temevo che ci rimanessero male, e ho deciso di tatuarmi una farfalla, uno di quei tatuaggi trasferibili. E me la sono appiccicata sulla testa. Le mie bambine mi hanno vista arrivare e mi hanno chiesto che cosa fosse: gli ho detto che da qualche giorno sentivo qualcosa che mi grattava sotto la testa, e che mi ero dovuta tagliare i capelli per capire cosa ci fosse e che poi, avevo trovato una farfalla. E loro ne sono state entusiaste, non hanno fatto che toccarla.

La malattia mi ha insegnato una cosa molto difficile: mi ha insegnato che sono amata, e non è stato facile da accettare per me. Perché sono sempre stata un po’ incazzata, perché la vita mi ha portato a mettere a dei paletti intorno a me, per difendermi. Mentre la malattia mi ha insegnato che non c’è solo il tempo del fare, il tempo del dare. Ma che c’è anche un tempo per godere e che il tempo del piacere è un tempo di vita.

[Testimonianze raccolte e scritte da Linda Caglioni, fotografie di Paolo Arnoldi] 

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