Quando il diritto uccide la giustizia

Eternit, la sentenza e la rabbia

Eternit, la sentenza e la rabbia
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Il processo a carico della multinazionale elvetica Eternit, operativa anche in Italia con quattro stabilimenti, è considerato il più grande processo per disastro ambientale mai svolto in Europa, ed i numeri in effetti parlano da soli: ci sono state quasi 2890 persone offese tra lavoratori e cittadini, di cui più di 2000 decedute e le restanti ammalate a causa delle polveri tossiche sprigionate dalla lavorazione di un particolare tipo di cemento-amianto, chiamato appunto Eternit, utilizzato in edilizia soprattutto come copertura.

Storico è definibile anche l’esito dei processi di primo e secondo grado, che hanno avuto come imputato Stephan Schmidheiny, il magnate svizzero proprietario dell’impresa: è stata infatti riconosciuta in capo ai vertici dell’azienda una responsabilità non semplicemente colposa (ossia dovuta a negligenza, imprudenza, imperizia, violazioni di leggi, regolamenti, ordini o discipline) ma di natura dolosa (ossia volontaria) seppur nella forma eventuale. Le accuse, infatti, sono state ritenute a titolo di “dolo eventuale”, una forma di imputazione del reato che consiste nell’aver agito rappresentandosi la concreta possibilità di realizzazione del fatto di reato e accettando il rischio del verificarsi dello stesso; nel caso in questione, i dirigenti di Eternit erano perfettamente a conoscenza del fatto che la presenza di amianto, all'interno dello stabilimento, sarebbe stata nociva nei confronti dei lavoratori, ma nonostante questo, non hanno avuto remore nel proseguire l'attività.

Tristemente storica, infine, è anche la pronuncia definitiva della Cassazione, avvenuta mercoledì 19 novembre: le accuse devono ritenersi del tutto decadute, così come la condanna a 18 anni di reclusione per Schmidheiny, poiché il reato è ormai caduto in prescrizione, ovvero è passato troppo tempo dal momento della commissione a quello della sentenza.

La storia processuale. Le radici di questa infinita trafila giudiziaria affondando addirittura negli anni Sessanta, quando alcune ricerche mostrarono la strettissima connessione fra amianto e malattie mortali. E infatti, a partire dal 1966, è iniziata un’attenta attività di monitoraggio dello stabilimento di Eternit presso Casale Monferrato, in provincia di Alessandria, a tutela della salute dei lavoratori e di tutti coloro la cui integrità fisica, per svariati motivi, potesse essere messa in pericolo. Secondo le indagini che ha portato avanti nel tempo, il procuratore aggiunto di Torino, Raffaele Guariniello, i massimi vertici di Eternit erano a conoscenza, almeno dagli anni Settanta, che l’inalazione di polveri d’amianto provocava malattie letali ma, secondo l’accusa, avrebbero scelto con consapevolezza di proseguire nelle lavorazioni nocive, fino alla chiusura dello stabilimento nel 1986. Non si pensi ad improvvisi rimorsi di coscienza dei dirigenti di Eternit: l’industria in questione, semplicemente, aveva cominciato a non essere più sufficientemente redditizia.

Ma, nel 2009, il lavoro del procuratore Guariniello trova finalmente sbocco processuale: il 6 aprile di quell’anno prende il via l’udienza preliminare, con 2.889 persone offese: è la più grande mai celebrata dal tribunale di Torino. Gli imputati (all’epoca Schmidheiny e il socio Louis De Cartier, deceduto però nel 2013) dovevano  rispondere delle accuse di disastro doloso e di rimozione volontaria di cautele sui luoghi di lavoro per le malattie (quasi tutte con esito letale) che hanno colpito 2.619 ex dipendenti delle sedi di Casale Monferrato (Alessandria), Cavagnolo (Torino), Rubiera (Reggio Emilia), Bagnoli (Napoli) e 270 tra familiari o residenti, a Casale Monferrato, venuti in contatto per svariati motivi con le fibre del minerale.

Otto mesi dopo, il 10 dicembre 2009, alle 10.17 in punto si apre il processo, che arriverà a contare oltre 6.300 parti civili. Il 13 febbraio 2012 arriva la sentenza di primo grado, che condanna a 16 anni i due imputati e prevede indennizzi per 80 milioni di euro. Arriva, naturalmente, il ricorso in appello, che si apre il 14 febbraio 2013, un anno dopo la storica sentenza di primo grado. Quattro mesi dopo, il 3 giugno, Schmidheiny viene di nuovo condannato: l’appello inasprisce la pena, che passa da 16 a 18 anni, e stabilisce un indennizzo di 89 milioni di euro per le parti civili. Nella sua tragicità, questa vicenda sembrava aver trovato, quantomeno, piena giustizia

Il ricorso in Cassazione e l’annullamento della sentenza. Nella giornata di mercoledì 19 novembre, però, è stato tutto completamente ribaltato: al terzo grado di giudizio, ovvero di fronte alla Cassazione, la sentenza di condanna è stata annullata dalla prima all’ultima riga, poiché il reato è ormai caduto in prescrizione. Non solo, sono state persino condannate al pagamento delle spese processuali l’Inps, l’Inail, e alcune famiglie delle vittime. Trionfanti il magnate svizzero Schmidheiny (“Ora basta con processi ingiustificati”) e il sostituto procuratore della Cassazione Francesco Iacoviello, che prima della sentenza aveva dichiarato: “La prescrizione non risponde a esigenze di giustizia, ma ci sono momenti in cui diritto e giustizia vanno da parti opposte”.

Le reazioni. Di tutt’altro tenore, naturalmente, le reazione dei famigliari delle vittime, che hanno accolto la decisione con ripetuti e sonori “Vergogna!”. Persino il Premier Renzi si è espresso sulla vicenda, dichiarandosi particolarmente rattristato dall’esito del processo e rilanciando sulla necessità di rivedere le norme relative alla prescrizione, definendola “un incubo”. Il pm Guariniello, dal canto suo, non accetta il ribaltone, sostenendo che, nonostante l’avvenuta prescrizione, il reato in forma dolosa è stato confermato, annunciando nuove battaglie processuali perché venga definitivamente fatta giustizia; cosa che, come brutalmente ma con verità ha affermato Iacovello, certe volte viaggia su tutt’altre strade rispetto a quelle del diritto.

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