Ecosistemi e distruzione

Foresta amazzonica, quale destino?

Foresta amazzonica, quale destino?
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La Reserva Nacional de Cobre e Associadas (Renca), con i suoi 46mila chilometri quadrati di foresta pluviale, è la più grande riserva del Brasile. Michel Temer, presidente del Paese, lo scorso 23 agosto aveva deciso di abolirla per favorire lo sfruttamento minerario della zona. La pressione dell’opinione pubblica, però, è stata così intensa da impedire al decreto di essere attuato. Sulla base di una petizione popolare, infatti, il giudice federale di Brasilia, Rolando Valcir Spanholo, ha deciso di sospendere il decreto, sottolineando come per una decisione del genere sia necessario l’intervento del Congresso.

 

 

Cosa sarebbe potuto succedere. Il decreto di Temer avrebbe dato il via libera agli scavi negli stati di Parà e Amapà, alla foce del Rio delle Amazzoni, per cercare giacimenti di oro, ferro, nichel e rame. Alla base di questa decisione c’era la volontà di attrarre investimenti esteri e creare nuovi posti di lavoro tentando di arginare la recessione iniziata in Brasile nel 2014. Tutto sarebbe avvenuto «nel rispetto della sostenibilità ambientale», assicurava Temer, precisando che sarebbe continuata la tutela assicurata alle aree della riserva, incluse quelle abitate dalle popolazioni indigene. Peccato che i mille indiani che vivono ancora allo stato primitivo nelle tribù della zona non fossero mai stati adeguatamente protetti dall’autorità centrale, nonostante la loro peculiare condizione e la totale mancanza di contatti con l’esterno. Non avendo mai avuto alcuna relazione con “l’uomo moderno” queste tribù sono infatti fortemente a rischio nel momento in cui entrano in contatto con una serie di malattie per noi banali, come morbillo e raffreddore, dalle quali potrebbero essere sterminati.

 

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Decreto revocato, pericolo scampato? Non proprio. Per capire quanto complessa sia la situazione bisogna analizzare meglio le ragioni del presidente Temer, che era pronto a svendere le risorse più importanti del suo paese pur di riuscire a contrastare la crisi economica nella quale il Brasile sta affondando, e che sta rapidamente consegnando il potere decisionale del governo nella mani dei colossi dell’alta finanza. Oltre alla distruzione di una larga fetta dell’ecosistema pluviale e all’eliminazione delle tribù indigene, il decreto del 23 agosto avrebbe facilitato una gestione mal regolata delle risorse minerarie e, non da ultimo, lo sfruttamento di nuovi terreni da parte dei campesinos, i contadini senza terra. Se i macchinari delle grandi compagnie avessero fatto irruzione nella parte incontaminata della foresta avrebbero infatti aperto nuove strade, permettendo così ai contadini di appropriarsi di terre vergini e coltivarle a piacimento.

 

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La deforestazione continua. La deforestazione è, del resto, un fenomeno che sta assumendo proporzioni allarmanti. Pare, infatti, che tra l’agosto del 2015 e il luglio 2016 siano stati persi ottomila chilometri quadrati di foresta (secondo uno studio dell’Ipam - Istituto di ricerca ambientale dell’Amazzonia). Più di ottomila in un anno. Sebbene il decreto di Temer sia stato fermato, date le dimensioni del problema la questione non può essere archiviata. Secondo il Wwf, infatti, per una serie di ragioni (tra le quali l’espansione dell’agricoltura e dell’allevamento, gli incendi, la siccità e il taglio illegale del legname), più della metà della foresta amazzonica potrebbe sparire entro il 2030. E, conseguenza ancora più drammatica, da polmone verde la foresta si trasformerebbe in un grande emettitore di CO2, derivato dal carbonio che gli alberi rilasciano una volta abbattuti.

A fine agosto la scomparsa di una cattedrale naturale grande più della Danimarca è stata evitata. Sui tavoli dei governi restano, però, progetti per la costruzione di 250 dighe e 20 vie di comunicazione,  oltre che la prospettiva di aprire alle trivellazioni di compagnie nazionali e straniere circa 20mila siti minerari di 400 parchi nazionali.

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