Due canzoni e un luogo

Hallelujah e Imagine al Bataclan (ma soltanto una afferma la vita)

Hallelujah e Imagine al Bataclan (ma soltanto una afferma la vita)
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Due canzoni e un luogo, Hallelujah e Imagine al Bataclan. Anzi, a dire il vero la prima al Bataclan, la seconda subito lì fuori. In questi giorni successivi alle stragi di Parigi, si è spesso sentito parlare di questi brani, il primo per ricordare la straordinaria performance del grandissimo Jeff Buckley proprio nel teatro della capitale nel 1995, il secondo perché cantato da un giovane sconosciuto, giunto al sagrato ancora lordo di sangue del Bataclan il mattino dopo la terribile notte, che trainando un pianoforte con la sua bicicletta ha radunato una grandiosa folla e l’ha immersa nelle note immortali di John Lennon. Il giovane misterioso ha toccato, commosso centinaia di persone raccolte intorno a lui, e probabilmente molte altre nel mondo, cantando di come sarebbe bello, facendo immaginare come sarebbe bello un mondo senza nazioni, senza religioni, senza possessi, senza nulla per cui spendersi. Cantando, insomma, di come sarebbe tragico, facendo immaginare come sarebbe tragico un mondo in cui non ci sia più nulla da affermare. Una vera fortuna che Buckley, venti anni fa, suggeriva a Parigi tutto il contrario.

 

https://youtu.be/Q4zZeTl3PCY

 

Imagine, ode al vuoto. Il non essere, che tentazione meravigliosa. Non essere né di qui né di lì, non essere né per l’uno né per l’altro, non essere né di questo qua né di quello là: non essere per poter dire di essere per davvero, perché svincolato da tutto e tutti. Solo così, solo essendo non essendo si potrà davvero convivere in pace, tutti insieme, perché non c’è nulla difendere e quindi nulla da assalire. Un mondo “anti-religioso, anti-nazionalista, anti-convenzionale, anti-capitalista”, Lennon dixit, è la chiave di volta. Un mondo “anti-”, l’antitesi come paradigma dell’agire, del pensare, del vivere. L’antitesi per dire, insomma, che dove non c’è nulla non c’è nemmeno il rischio che ci sia qualcosa di male, di sbagliato, finanche di tragico. Amici parigini, anzi di tutto il mondo, come sarebbe meglio se non ci fossero le nazioni, le religioni, il paradiso e l’inferno, il mio e il tuo, l’io e il tu. Come sarebbe meglio se non ci fosse niente da affermare.

Hallelujah: non capisco, ma grido. C’era il re Davide, proprio quello biblico, che una sera, passeggiando sulla terrazza, vide la bellissima Betsabea, figlia dell’ufficiale Uria, e se ne innamorò. O forse semplicemente la volle. Fatto sta che la ebbe, commettendo adulterio. Per questa colpa Davide venne punito; perplesso, non riuscendo a capire, lui grande suonatore di arpa, compose “Hallelujah!”. Così come Sansone, lo straordinariamente possente Sansone, che a causa dell’infatuazione per Dalila venne raggirato e perse la sua proverbiale forza. E legato ad una sedia, dalle sue labbra si strappò un “Hallelujah!”. Buckley prosegue la canzone arrivando finalmente a sé: parla di una donna con cui ogni respiro era un “Hallelujah!”, una donna che poi lo lascia, per cui soffre, per cui è uno sgretolarsi, per cui ha bisogno di gridare “Hallelujah!”. Si tratta di una parola ebraica, che letteralmente significa “preghiamo”, “rendiamo lode”: Davide e Sansone, piegati dalla colpa e prostrati per le sofferenze che ne sono conseguite, gridano Dio, affermano Dio. Jeff Buckley, corroso dal dolore per un amore non corrisposto, che non riesce a spiegarsi perché sia dovuto finire, urla la sua voglia di vita, afferma la vita.

 

 

E allora scegliamo: o con Lennon o con Buckley. Vedere quell’ignoto pianista, ascoltarlo cantare e inneggiare ad un’assenza come risposta al male tremendo che sta sconvolgendo il mondo, proprio in quel posto, davanti al teatro Bataclan, lascia una tristezza infinita. Pensare di rispondere alla tragedia, alle atrocità e al male auspicando il vuoto, celebrando un ideale mondo “anti-” vuol dire erigere l’avamposto di un mondo che potrà solo perdersi ancor di più. Jeff Buckley, vent’anni fa, proprio in quello stesso teatro sosteneva l’opposto: di fronte alla sofferenza, al dolore che non si riesce a comprendere, occorre cantare ciò che è, o perlomeno la speranza che qualcosa sia. Occorre, insomma, affermare. In fondo, è la scelta di fronte alla quale oggi, dopo i fatti di Parigi, siamo di fronte tutti: scegliere il nichilismo, perché ciò che è porta sofferenza e dolore, e allora tanto vale che nulla sia; oppure decidere di affermare: un dio, una giustizia, una fratellanza, certi affetti, un senso intimo delle cose, ognuno capisca cosa preferisce. Ma senza lasciarsi prendere dalla terribile tentazione che vuoto è meglio. Jeff Buckley, dal palco del teatro Bataclan nel 1995, sprona oggi tutto il mondo ad affermare il proprio lavoro, affermare i propri cari, affermare il proprio Paese, affermare i propri desideri, ciò in cui si crede, ciò per cui ci si spende. La battaglia contro gli orrori che stanno attanagliando il mondo oggi potrà essere vinta solo affermando, non annichilendo. Solo con un “Hallelujah!”, e non immaginando.

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