Dopo l'assoluzione di Hashi

Ilaria Alpi, la pista bergamasca

Ilaria Alpi, la pista bergamasca
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Sul finire del 1998 le indagini sull’omicidio di Ilaria Alpi si spinsero fino a Bergamo. Luciana S., 58enne residente nella zona di via Broseta, riferì ai carabinieri la frase choc della sua ex colf somala: «È stato uno dei miei cugini ad uccidere la giornalista». Una rivelazione finora inedita, che infittisce il giallo sulla sorte dell’inviata Rai e del suo operatore Miran Hrovatin, assassinati a Mogadiscio il 20 marzo 1994 per ragioni mai chiarite, ma con forti probabilità riconducibili alle scottanti inchieste svolte dalla Alpi sul traffico d’armi tra Italia e Somalia. Un intrigo internazionale che, lo si scopre solo ora, sfiorò anche la nostra città.

 

 

I dossier rimasti segreti per 18 anni. La testimonianza della 58enne bergamasca è contenuta in un rapporto dei carabinieri di Bergamo rimasto coperto da segreto per quasi 18 anni. Fino a quando cioè la presidente della Camera Laura Boldrini ha deciso di declassificare e rendere pubblici gli oltre 200 documenti custoditi dalla Commissione parlamentare d’inchiesta istituita nel tentativo (non riuscito) di far piena luce sul doppio delitto di Mogadiscio. Tra questi dossier, che comprendono anche numerose informative dei servizi segreti, BergamoPost ha ritrovato quello che aprì la clamorosa “pista” bergamasca.

La deposizione di Luciana S. Dal “verbale di sommarie informazioni” redatto dai carabinieri, risulta che il 2 dicembre 1998 Luciana S. (omettiamo i cognomi per tutelare le persone coinvolte in una vicenda che resta delicata, ndr) si recò in caserma dopo essersi rivolta al generale Carmine Fiore, comandante della Brigata Legnano di stanza in città e schierata in Somalia tra il 1993 e il 1994. Fu proprio l’alto ufficiale, che la donna conosceva perché gli affidava i generi di prima necessità da consegnare alla popolazione somala, a metterla in contatto con il comando provinciale dell’Arma.

 

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Agli uomini del reparto operativo Luciana S. raccontò di aver avuto alle dipendenze una 27enne somala di nome Safia, che «era solita criticare in maniera accesa il comportamento dei nostri militari in Somalia». Un atteggiamento che la bergamasca non gradì, e che inevitabilmente fece nascere qualche attrito tra le due. Quando, nel gennaio di quell’anno, si diffuse la notizia dell’arresto di Hashi Omar Hassan, il somalo che sarà poi condannato per l’omicidio, Safia non riuscì a trattenersi. «Mi disse che non riteneva giusto che questo somalo fosse stato arrestato, precisando che non lo riteneva responsabile dell’omicidio di Ilaria Alpi». La signora Luciana lì per lì non ci fece troppo caso, anche perché in aprile Safia lasciò il lavoro. Ma l’episodio le tornò in mente incontrando la sua conoscente Maria M., presso cui la somala era finita a lavorare per un breve periodo. Due chiacchiere come tante altre volte, ma a un certo punto il discorso scivolò su Safia. «Nel corso del colloquio Maria mi disse che le aveva confidato che l’assassino di Ilaria Alpi era un suo cugino», fece mettere a verbale Luciana.

 

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Safia smentisce di aver parlato. La testimonianza della 58enne fu subito girata alla procura di Roma, che indagava sul delitto Alpi. Il sostituto procuratore Franco Ionta chiese di rintracciare e interrogare la colf dalla lingua lunga. Il 15 dicembre la giovane fu convocata in caserma e identificata come Safia Ali S.A.S., nata a Mogadiscio, arrivata in Italia regolarmente il 16 marzo ’95 (a quasi un anno dall’omicidio di Ilaria Alpi) e residente in un palazzo signorile di via IV Novembre insieme al marito. Safia confermò di aver lavorato per le due donne, ma negò in modo categorico di aver mai accennato al delitto. Anzi, disse di aver saputo del caso Alpi solo dalla tv italiana. I carabinieri presero nota e le chiesero se avesse dei cugini. Safia rispose di averne molti, otto dei quali residenti a Mogadiscio. Elencò i nomi, dopodiché i carabinieri la lasciarono andare. Ma il 12 gennaio i militari convocarono la signora Maria, che confermò la testimonianza resa da Luciana. «Ricordo che la Safia, quasi ridendo, mi disse che uno dei suoi cugini era accusato di aver sparato alla giornalista». Dal documento desecretato non risulta se la somala sia poi stata sottoposta a ulteriori accertamenti o intercettazioni.

 

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La sentenza per Hashi. Ora la testimonianza potrebbe tornare alla ribalta e assumere uno spessore diverso. Perché mercoledì è arrivata la sentenza del processo di revisione a carico di Hashi, che ha passato 16 anni in carcere (ora è affidato ai Servizi sociali): il caso è stato riaperto da Chi l’ha visto, che nel febbraio 2015 intervistò il suo grande accusatore, un certo Gelle. Davanti alle telecamere, l’uomo confessò di essersi inventato tutto e di essere stato pagato per mentire. Da chi e perché non si sa. Ora, la Corte d’appello di Perugia ha assolto il somalo, al termine del processo di revisione, «per non avere commesso il fatto». La Corte d’appello di Perugia ha inoltre disposto la revoca di qualsiasi limitazione della sua libertà personale. Ma se Hashi davvero non c’entra nulla, chi ha ucciso Ilaria Alpi e Miran Hrovatin? Forse Safia conosce la risposta. Ma la donna del mistero non abita più in via IV novembre. E nessuno sa che fine abbia fatto.

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