Lo ha deciso la Corte di Cassazione

Lavoro, perché si può licenziare in caso di assenteismo "strategico"

Lavoro, perché si può licenziare in caso di assenteismo "strategico"
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È legittimo licenziare i lavoratori che si assentano troppo spesso dal posto di lavoro, anche se il numero delle assenze non supera i giorni di malattia consentiti dalla legge (il cosiddetto “periodo di comporto”). Così ha deciso la Corte di Cassazione nella sentenza n.18678 depositata il 4 settembre scorso, con la quale è stato confermato il licenziamento di un dipendente di un’azienda di Chieti.

Perché il lavoratore definiva «illegittimo» il suo licenziamento. Il lavoratore, al quale avevano dato torto anche i giudici del merito (il Tribunale di Vasto e la Corte d'appello dell'Aquila), aveva fatto ricorso alla Corte di Cassazione chiedendo di dichiarare illegittimo il suo licenziamento in quanto questo poteva intervenire solo se fosse stato superato il “periodo di comporto.”
Si tratta di quel periodo di tempo durante il quale il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto, nonostante l’esecuzione della prestazione lavorativa venga sospesa per fatto riguardante la sua persona (malattia, infortunio, gravidanza o puerperio).  Infatti, a norma dell’art. 2110 del Codice civile, il datore non può licenziare il dipendente se l’assenza per malattia (o la somma dei periodi di assenza per malattia) non supera tale periodo di tollerabilità. La durata di quest’ultimo è determinata, in genere, dai Contratti Collettivi Nazionali del Lavoro.
Nel caso in esame, le assenze per malattia non avevano superato il periodo di comporto ed è proprio su questo che il lavoratore aveva fondato il ricorso, ritenendo che il licenziamento fosse da considerare premeditato e senza giusta causa.

Il comportamento «strategico» del dipendente. La Corte di Cassazione ha ritenuto che le assenze per malattia dovessero essere valutate non con riferimento al periodo di comporto, bensì con riferimento alle modalità con cui le stesse si verificavano.
Dall’istruttoria era emerso, infatti, il comportamento «strategico» del lavoratore, il quale faceva assenze sistematiche, per «un numero esiguo di giorni» ma «reiterate», a «macchia di leopardo» e «costantemente agganciate» ai giorni di riposo.
Dalle testimonianze dei colleghi, inoltre, risultava che le assenze in questione venivano comunicate all’ultimo momento  - determinando la difficoltà di trovare un sostituto – e che il dipendente risultava assente proprio quando doveva effettuare il turno di fine settimana o quello notturno.

Perché il licenziamento è legittimo. La malattia – argomenta la Cassazione – non viene, dunque, in rilievo di per sé ma in quanto le assenze «davano luogo ad una prestazione lavorativa non sufficientemente e proficuamente utilizzabile per la società, rivelandosi la stessa inadeguata sotto il profilo produttivo e pregiudizievole per l’organizzazione aziendale, così da giustificare il provvedimento risolutorio».
Difatti, in base alle norme sul licenziamento individuale (legge n. 604 del 1966) il licenziamento per giustificato motivo «può essere determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore o da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa».
Il licenziamento, pertanto, è stato considerato legittimo in quanto «le assenze, anche se incolpevoli, davano luogo a scarso rendimento e rendevano la prestazione non più utile per il datore di lavoro, incidendo negativamente sulla produzione aziendale».

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