Giuseppe, Valter Foffo e Ledo Prato

I tre padri del delitto Varani

I tre padri del delitto Varani
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Tre padri, tre storie diversamente drammatiche di figli “scappati” di mano. Se si prova a leggere la vicenda del terribile delitto di Roma mettendosi nei panni dei padri, vengono davvero i brividi. Sia con il figlio assassino, sia con il figlio vittima. Iniziamo da quest’ultimo. Il padre adottivo di Luca Varani, Giuseppe, si è chiuso nel silenzio, nella sua casa di La Storta, quartiere a nord ovest di Roma, vicino al Raccordo anulare. Lui è commerciante ambulante di dolciumi e tramite i suoi avvocati ha fatto sapere di non tollerare che il figlio venga fatto passare per un ragazzo difficile, che frequentava giri ambigui al confronto dei due giovani che lo hanno torturato e ucciso. «Hanno detto che Manuel Foffo è un ragazzo modello? Andrà a finire che in questa storia l'unico delinquente sarà mio figlio». Ora a quel padre è toccato leggere i dettagli minuziosi delle terrificanti torture a cui è stato sottoposto quell’unico figlio. Dettagli che sono come coltellate al cuore, immaginando il film di una fine così crudele, in quella spirale di sadismo senza fondo. Ogni giorno qualche particolare in più, come a prolungare un’agonia che non finisce mai.

 

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L’altro padre nel ciclone è quello di Manuel Foffo, il primo ad uscire allo scoperto, suscitando anche un po’ di sconcerto. Di Manuel si sa poco, non girano foto. Di Valter, il padre, invece ormai sono pieni i siti e gli schermi tv. Lui infatti due giorni dopo il delitto ha scelto di andare da Vespa per parlare di suo figlio. «Un ragazzo modello, contro la violenza, molto buono, forse eccessivamente buono», lo ha descritto. «E riservato, con un quoziente intellettivo sopra la norma». Ma era stato Walter a raccogliere la prima confessione del figlio, andando in Molise per il funerale di uno zio. «Sono caduto ancora più in basso. Abbiamo ammazzato una persona, io e un mio amico che ho visto però solo due volte», gli aveva confidato in auto. Ed è stato proprio il padre a convincere il figlio a costituirsi ai carabinieri, mentre l’altro complice, Marc Prato, si era rifugiato in un albergo di piazza Bologna, dove aveva tentato il suicidio.

 

 

Il terzo padre è quello del personaggio più mediatico di questo delitto. Quello più noto, le cui foto girano su tutti i siti (mentre di Manuel Foffo si vedono solo immagini confuse), Marc Prato. Il padre Ledo è un personaggio noto a Roma, molto impegnato nella promozione del patrimonio culturale, ha fondato, nel 1990 insieme a Ovidio Jacorossi e Giuseppe De Rita, l'Associazione Mecenate 90 di cui è Segretario generale. Ledo Prato, a differenza di Walter Foffo, ha scelto la via più provata della lettera scritta su facebook e sul suo sito personale. E in particolare non ha nascosto le difficoltà da sempre incontrate nel rapporto con suo figlio. È la lettera di un padre profondamente ferito. «In questi giorni in cui la stampa ha fatto a brandelli la vita di tre famiglie colpite, ciascuna in modo drammaticamente diverso», scrive Ledo Prato, «si sono letti giudizi sommari, verità parziali o di comodo, usate espressioni dei tempi più bui della vita civile». Poi facendo un richiamo al Vangelo della domenica passata, quello con la parabola del fico, continua dicendo di confidare in «quelli che lasciano spazio al perdono che, seppure non cancelli la colpa, preserva la possibilità per le persone, tutte le persone, di non ergersi a giudici esclusivi e onnipotenti». Ma nella lettera nessun cenno al destino degli altri, nessuna parola di scuse per la famiglia della vittima. Tre padri sotto assedio, chiusi nel loro dramma.

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