Non è più tempo di abbracci

Tutti a dire «salviamo la montagna» Ma è 30 anni che si dicono balle

Tutti a dire «salviamo la montagna» Ma è 30 anni che si dicono balle
Pubblicato:
Aggiornato:

Da quando ho cominciato a occuparmi dei problemi della montagna sento parlare della necessità di rilanciarla, di aiutarla, ascolto appelli affinché «la montagna non muoia». Era il maggio 1987 e aprivo la redazione di Clusone de L’Eco di Bergamo, tenacemente voluta da un uomo della montagna, monsignor Andrea Spada, direttore per cinquantuno anni de L’Eco. Don Spada sapeva che la montagna si aiuta con i fatti, non con le chiacchiere. La redazione era un fatto concreto. Oggi, trentadue anni dopo, sento le solite parole, gli stessi proclami, soltanto è cambiato lo stile; allora era sobrio, contenuto, adesso è gridato, adesso sono slogan («La montagna merita di più!») e diventa persino spettacolo.

 

 

L’idea di portare diecimila persone nei nostri rifugi per dire “Salviamo la montagna” (in questi nostri giorni è di moda l’inglese, quindi “Save the mountains”), da parte del Cai di Bergamo, non è una brutta idea. Ma non serve a nulla. Come non servono a nulla i proclami del giorno dopo, letti sui giornali, del tipo: «Adesso dobbiamo impegnarci tutti insieme»; oppure: «Servizi ai turisti, ma vanno garantiti anche a chi vive qui», «Dobbiamo pensare a politiche che possano essere a sostegno della montagna, ma non dobbiamo fare assistenzialismo». Parole sante. E del tutto ovvie. Inutili. Perché i numeri sono agghiaccianti e non sono opinioni. Ci comunicano che la montagna bergamasca si spopola ancora, in maniera inesorabile. Dicono che interi paesi sono a rischio estinzione, specialmente là dove la montagna è più montagna, cioè nelle zone marginali, più selvagge e più belle. Paesi della Val Brembana come Cassiglio, come Ornica, Averara, Piazzolo, appesi a un filo. Intere zone, come la Val Taleggio (la valle conta 750 abitanti, si pensi che anche solo nel 2001 ne contava 844) non sanno se avranno un futuro. I servizi continuano a diminuire. Le corse degli autobus, per esempio. Le scuole. L’assistenza. E poi ci sono occasioni che vengono prese e buttate in discarica.

 

 

Fraggio non c’è più. Martedì sono andato a Fraggio, in Val Taleggio, appunto. Negli Anni Ottanta, ma anche prima, in molti scrissero che quel paesino disabitato andava salvato, a ogni costo. Perché era un esempio unico di un’architettura particolare, con quegli edifici dai tetti in pietra, spioventissimi, architettura rurale, di montagna. Si scrisse che Fraggio era un piccolo gioiello, anche per via del suo impianto urbanistico, della sua chiesa, del suo palazzo, delle case dei contadini con i muretti a secco, con le viuzze selciate e in erba. Un villaggio intatto, giunto a noi dal cuore della civiltà montana delle Orobie. Martedì sono tornato a Fraggio dopo ventisei anni. Non c’è più. Alcune case sono crollate, altre sono state salvate grazie a interventi anche decenti, ma che le hanno snaturate. È rimasta soltanto la chiesa, con il suo...

 

Per leggere l’articolo completo rimandiamo a pagina 7 del BergamoPost cartaceo, in edicola fino a giovedì 18 luglio. In versione digitale, qui.

Seguici sui nostri canali