Il racconto in prima persona

«Ho visto Il Castello di Kenilworth Bellezza vera, che commuove»

«Ho visto Il Castello di Kenilworth Bellezza vera, che commuove»
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Quando riconosco una particolare bellezza sento la gioia prendermi lo stomaco e salire; in particolare accade quando riconosco in quella bellezza il frutto di un grande impegno, di un lavoro incessante, di una ricerca che costa anche sofferenza. Quando Totò fa la marionetta, per esempio. Davanti alla Madonna con Bambino in trono che sta segregata nella chiesa di San Bernardino, opera di Lorenzo Lotto. Gli astronauti soli nel deserto nero della Luna. Mi è successo anche domenica 2 dicembre, al pomeriggio; era il finale di Il Castello di Kenilworth. C’era Jessica Pratt che cantava lì, sul palco, a una dozzina di metri da me e la sua voce era altissima, eppure melodiosa, gorgheggiante eppure cristallina come acqua di sorgente, e intanto le leggevo in volto la fatica, la sofferenza, l’impegno estremo per dare il meglio. Mi sono commosso: ammiravo Jessica Pratt e pensavo a quali risultati meravigliosi si possa arrivare a patto di un impegno forte, tenace, al limite di noi stessi. È stato il finale travolgente di un’opera che mi ha sorpreso. Non me ne intendo di lirica, però ogni tanto mi piace andare ad ascoltare qualcosa. Pensavo che il Castello fosse un’opera secondaria di Donizetti. Invece la potenza, la dolcezza della sua musica mi hanno preso. Il libretto, il testo, francamente mi è sembrato fragile in alcune parti... ma la musica no, la musica meritava un testo di prim’ordine.

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Ho letto poi che Il Castello di Kenilworth andò in scena per la prima volta al San Carlo di Napoli il 6 luglio del 1829. Donizetti aveva trent’anni, era ormai un musicista maturo, e si sente. In quanto tempo avrà scritto quest’opera che dura due ore e mezza? Due settimane, un mese? Lui era un genio, senza dubbio. Me lo sono immaginato lui, bergamasco, a Napoli, in quei giorni. Napoli a quel tempo era con Parigi la più importante città d’Europa, capitale assoluta del belcanto, era un città fremente, ospitava musicisti, artisti e intellettuali. I Borboni non erano così opprimenti se non si entrava troppo nella questione politica. Donizetti sul lungomare di Chiaia, Donizetti che passeggia in San Biagio dei Librai, Donizetti che entra nel Duomo… Gli volevano tanto bene i napoletani.

Allestimento sobrio. Dopo Kenilworth venne Anna Bolena, e fu il successo internazionale. Ma torniamo all’opera vista nel nostro piccolo e suggestivo Teatro Sociale, con l’orchestra nascosta sotto il palco e il direttore che sbuca fuori con la testa. Un allestimento sobrio ma ben fatto, belli i costumi, suggestiva l’idea finale, con quel traliccio, come una grande grata, che va a dividere la regina Elisabetta dai suoi sudditi, dagli altri protagonisti che lei ha perdonato… Solitudine, incomunicabilità. Già. Brava Jessica, bravo il direttore Riccardo Frizza, brava Carmela Remigio, bravi tutti. E che goduria nel vedere il testo italiano con la traduzione in inglese: la nostra lingua densa di termini specifici, ricchi di sfumature, di significato. L’inglese piatto, i soliti termini che girano… e noi che invece facciamo a gara, a tutti i livelli, per scimmiottare gli inglesi e gli americani (come diceva Carosone: «sient’a mme chi t’o ffa fa?»). E che doppia goduria nel sentire i protagonisti che cantavano Leicester come è scritto e Warney pure, all’italiana...

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