Da L'Europeo del 1963

Quell'intervista della Fallaci a Totò «Signorina, a me Totò non piace»

Quell'intervista della Fallaci a Totò «Signorina, a me Totò non piace»
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Riproponiamo l'intervista di Oriana Fallaci a Totò, pubblicata sulle pagine de L'Europeo nel 1963. Due grandi che si incontrano e a poco a poco svelano l'uomo nascosto dietro uno dei personaggi italiani più amati. Un ritratto dolente, in realtà, un po' malinconico, fatto di solitudine e di amarezza. Ma anche di un'eleganza ironica, sottile e napoletana, capace di leggere e accettare la vita.

 

Da L'Europeo, 1963

Non si piace, dice. Ma si vuole bene da sé. È altezza imperiale, e tante altre cose. Ma deve tutto al personaggio di Totò. Si sarebbe pure fatto frate, se non ci fosse il piccolo impedimento della castità. Tra tristezze e una grande ironia, il più grande comico italiano si racconta.

 

Principe, Le porgo i miei rispetti e i miei omaggi… Lei è proprio principe, vero? (Sorride, un po’ imbarazzata, al gentiluomo dall’aria nobile e triste, che la ossequia da alcuni minuti come se fosse l’imperatrice Teodora).
«Sua Altezza Imperale il Principe Antonio de Curtis (Totò).Signorina mia, vuol scherzare? Non crederà mica anche lei che i ritratti degli antenati li ho presi dagli antiquari? I titoli non si comprano, li danno i sovrani. Vi sono due specie di titoli: quelli nativi, i quali vengono da famiglie che hanno regnato, e quelli dativi, i quali vengono dati dal re a qualcuno che ha fatto qualcosa… Il mio è nativo. E ce l’ho dal giorno in cui venni al mondo: come mio padre, mio nonno, mio bisnonno, mio trisnonno, su su fino al 362 avanti Cristo. Sì, questo sul mio anello è lo stemma. Come vede, sullo stemma sono incise la data, 362 a.C., l’araba fenice che guarda il sole nascente sotto le colonne di Ercole, la mezzaluna con tre stelle che sarebbe l’Oriente…».

Il volto bizantino ce l’ha.
«Me l’hanno già detto. Ricorda quelli di certi mosaici a Ravenna. Me l’hanno già detto. Vengo da Bisanzio, per forza. Signorina mia, sono altezza imperiale, son principe e anche molte altre cose: conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, ufficiale della Corona d’Italia, cavaliere della Gran Croce dell’Ordine di Sant’Agata e San Marino, marchese di Tertiveri, questo però non lo uso. (Con lo stesso tono di voce) Dick, il mio cane lupo, era invece barone. Peppe, il mio cane attuale, è visconte. Visconte di Lavandù. Gennaro, il mio pappagallo, è cavaliere. Li ho investiti io. Caligola non fece senatore il suo cavallo? Troppo giusto, però non deve dirlo. Altrimenti concludo che non gliene importa, d’essere altezza imperiale. Signorina mia, me ne importa: quel tanto che basta a onorare gli avi, la famiglia che ha avuto questa roba… Sarebbe come dire che il pronipote di Marconi non ci tiene a esser pronipote di Marconi. Ci tiene. Ma il mio più bel titolo resta Totò. Con l’altezza imperiale io non ci ho fatto nemmeno un uovo al tegamino, con Totò ci mangio dall’ età di vent’anni. Mi spiego?».

Ma le altre altezze imperiali e non come La trattano?
«All’inizio mi snobbavano, si capisce. Poiché lavoro, poiché faccio il pagliaccio, mi guardavano con la puzza al naso. A ogni modo, sa, io me ne infischio di come mi trattano: perché il mio titolo è più forte del loro. E poi su queste cose la penso come lo spazzino della mia poesia ‘A livella: quella del marchese che è seppellito accanto allo spazzino e vuol mandarlo via».

Lei dice sempre bene. E poi Lei è un divo, un artista.
«Macché artista, venditore di chiacchiere.Un falegname vale più di noi artisti: almeno fabbrica un tavolino che rimane nei secoli. Ma noi, dica, che facciamo? Quanto duriamo? Al massimo, se abbiamo molto successo, una generazione. Se chiedo al mio nipotino chi era Petrolini, chi era Zacconi, risponde boh!».

La Sua modestia mi lascia smarrita. Lei sta recitando.
«Io le giuro sulla tomba di mia madre, l’ unica cosa cara che ho al mondo, che sono sincero, non recito. Sto per confessarmi, anzi, come non ho mai fatto con nessuno. Io sono un misantropo, un timido, pensi che quando entro in un ristorante abbasso gli occhi perché mi vergogno che la gente mi guardi, e non ho mai amato rivelare chi sono. Stavolta ci provo, però deve credermi: sennò tanto vale andarci a bere un caffè. Signorina, io recito solo nei miei brutti film».

E allora mi dica: perché recita in quei brutti film?
«Signorina mia: io non prendo i 100, i 70, i 50 milioni di lire che prendono gli altri. E ciò di proposito, perché se sento dire che il tale o la tale hanno preso 600 milioni per la parte in un film, resto inorridito, schifato. Io non ho mai voluto prendere grandi cifre perché ho sempre pensato che il produttore deve guadagnare, col film. Se non guadagna, fallisce. Se fallisce, io non faccio più film. E se un po’ alla volta falliscono un po’ tutti, dopo che faccio? I film dove recito io son commerciali, son filmetti arraffati, destinati alle sale di seconda visione, e costano poco: anche come film. Quando son lì, non posso mica dire no, questo io non lo fo, non mi piace, non va… Sarebbe scorretto, scortese… Senza contare che io non posso vivere senza far nulla: se vogliono farmi morire, mi tolgano quel divertimento che si chiama lavoro e son morto. Poi sa: la vita costa, io mantengo 25 persone, 220 cani… I cani costano…».

Duecentoventi cani?!? E perché? Che se ne fa di 220 cani?
«Me ne faccio, signorina mia, che un cane val più di un cristiano. Lei lo picchia e lui le è affezionato l’istesso, non gli dà da mangiare e lui le vuole bene l’istesso, lo abbandona e lui le è fedele l’istesso. Il cane è nu signore, tutto il contrario dell’ uomo».

Lei non ha una gran stima degli uomini. Una buona opinione del Suo prossimo. E forse non ha nemmeno molti amici.
«No. No. No! Io mangio più volentieri con un cane che con un uomo. Di amici… ne avrò due, forse. Sì, due ne ho: il conte Paolo Gaetani e il conte Fabrizio Sarazani. A parte il titolo, due che lavorano, come me: umili operai, come me. Perché vede quella mia battuta «siamo uomini o caporali» non è affatto un gioco. Il mondo io lo divido così, in uomini e caporali. E più vado avanti, più scopro che di caporali ce ne son tanti, di uomini ce ne sono pochissimi».

Quando nacque questo Suo odio per i caporali, principe?
«Sotto le armi, con un caporale di Alessandria che nella vita faceva lo spazzino. Caporali, vede, son quelli che voglion essere capi. C’è un partito e sono capi. C’è la guerra e sono capi. C’è la pace e sono capi. Sempre gli stessi. Io odio i capi come le dittature, le botte, la malacreanza, la sciatteria nel vestire, la villania nel parlare e mangiare, la mancanza di puntualità, la mancanza di disciplina, l’adulazione, i ringraziamenti… Quelli, sa: sempre meglio dell’ingratitudine… All’ingratitudine io ci sono abituato e la accetto: con divertimento. Io non mi arrabbio mai per l’ingratitudine. Una volta feci scarcerare un ladro di polli che aveva rubato il pollo, diceva, per fare il brodo alla figlia tubercolotica. I ladri di polli mi son sempre rimasti simpatici, anche se non hanno la figlia tubercolotica: così chiamai il mio avvocato e lo feci scarcera’. Bene. Sa cosa fece? Uscì e rubò la valigia dell’avvocato. Non è divertente? Per me, sì. Per Lei, meno: suppongo. Anche per me. Un’altra volta avevo un amico: un giornalista. Veniva sempre a mangiare da me, mattina e sera, ed era proprio un amico, non un caporale. Mi chiese in prestito una macchina da scrivere e io gliela comprai. Nuova nuova. Lui disse grazie, andò a casa con la sua macchina e la inaugurò scrivendo un articolo contro di me. L’articolo più feroce che mai sia stato scritto sopra di me: il più crudele, il più cattivo. Divertente, no? Per me, sì, per Lei, un po’ meno. Anche per me. E, in questo caso, più che divertente: bello. Pensi che pena, che mancanza di dignità, se avesse inaugurato la macchina scrivendo bene di me. Infatti il giorno dopo tornò a mangiare e ci ridemmo su».

Principe: io non La ho mai vista ridere. A parte il fatto che esser triste è la legge dei comici, io temo che Lei abbia sempre riso pochissimo: che non conosca il sapore di una bella risata.
«Pochissimo, niente. Io non rido, sorrido. E, anche quello, raramente. Sorrido a lei, per esempio, perché è una donna: non si può mica parlare a una donna con il musone. Però vede: non è esatto nemmeno dire che io sia triste: son calmo, privo di ansia. Io l’ansia non la conosco. Deve influire, in questo, il mio residuo di sangue orientale, bizantino. Non so… starei ore e ore fermo a guardare il cielo, la luna. Io amo la luna, assai più del sole. Amo la notte, le strade vuote, morte, la campagna buia, con le ombre, i fruscii, le rane che fanno qua qua, l’eleganza tetra della notte. È bella la notte: bella quanto il giorno è volgare. Il giorno… che schifo! Le automobili, gli spazzini, i camion, la luce, la gente… che schifo! Io amo tutto ciò che è scuro, tranquillo, senza rumore. La risata fa rumore. Come il giorno».

Lei è un animale notturno, lo so: non va a letto prima dell’alba e si sveglia quando il sole è già alto. Ma come passa la notte?
«Nulla e tante cose. Ora le spiego. La servitù va a dormire alle 11. Franca, mia moglie, resta con me fino alle 2: mi parla, mi legge i giornali perché come lei sa io son mezzo cieco… Poi anche lei va a dormire e io resto solo. Giro per la casa, sto seduto, penso, io penso molto, mi affaccio alla finestra, vado in cucina a controllare che il gas sia chiuso, che le valvole della luce elettrica siano a posto, spengo le cicche perché ho sempre paura dell’incendio, vuoto i portacenere perché non sopporto l’odore delle cicche… E poi, siccome ho una radio che prende tutte le stazioni e in più la radio marina, mi metto lì e mi sento tutti i discorsi che si fanno le navi, i telegrammi dei pescherecci, «Partito da Gibilterra, caricato 6 quintali di banane», e ci trovo l’ alba. Ridicolo, eh? Una scena da uomo ridicolo».

No!: una scena da uomo solo. Lei dev’essere un uomo terribilmente solo, principe. Solitario e solo.
«Molto solo, non terribilmente solo. Perché io amo esser solo. Ho bisogno di essere solo: per contemplare, per pensare… A volte mi danno noia perfino le persone che amo: mia figlia, mia moglie… E, quando accade, zitto zitto, mi alzo e vado in camera mia. Sì, è difficile viver con me: questo è un rimprovero che le mie compagne mi hanno sempre rivolto, che all’ inizio mi rivolgeva anche Franca. Ora Franca vi si è assuefatta, trova questa vita normale sebbene sia giovanissima. Pensi: ha solo 32 anni… Prima invece… La capivo, sa? Capivo che le sarebbe piaciuto andare nei posti, nei night. Ma a me non piace, non è mai piaciuto. Io, quando vedo quel divertimento falso non posso fare a meno di pensare che dietro a ciascuna di quelle persone v’è un dramma: il pianista magari ha le scarpe rotte, l’industriale ha le cambiali che scadono, l’entraineuse ha il figlio ammalato… Gliel’ho detto: sono un misantropo, la base della mia vita è la casa. La casa, per me, è una fortezza, quasi una persona. Quando vi entro la saluto sempre come una persona: «Buonasera, casa». Oggi, per esempio, Franca è a Lugano e in casa son solo. Be’: ci sto benissimo. Sì, è molto difficile viver con me».

Eppure, matrimoni a parte, non ha mai fatto lo scapolo. La sua casa è stata vuota ben poco, e la si è sempre vista a braccetto di splendide donne.
«Poco, guardi, poco: in un modo o nell’altro son stato sempre accoppiato, pardon, accompagnato. Non posso stare, io, senza una donna. Prima, quando viaggiavo senza una donna, portavo sempre con me una vestaglia femminile e un paio di scarpine col tacco. Sempre. Così, prima di andare a letto, appendevo la vestaglia accanto alla mia, mettevo le scarpine accanto alle mie, e mi sembrava di aver la donna. Che vuol farci: amo troppo le donne. Sarà perché sono meridionale, sarà perché odio gli uomini: ma le donne, secondo me, sono la cosa più bella che ha inventato il Signore. Io le amo tanto, le donne, che riesco perfino a non essere geloso. Tanto a che serve esser geloso. Se una donna ti vuol bene, è felice. Se non ti vuol bene, ne prendi un’altra. Sì, lo so cosa pensa. Che dalle mie canzoni risulta tutto il contrario. Ma quelle cose si scrivon così perché fanno comodo…».

E Lei, principe, sa esser fedele?
«Ora sì. Prima no. Ma per l’uomo è diverso. L’uomo è poligamo. Ha mai visto cento pecore e cento montoni, dieci galli e dieci galline? Io ho sempre visto cento pecore e un montone, dieci galline e un gallo. Se fossi musulmano… Dica: ma come fanno quegli uomini cui non piacciono le donne? Io non li capisco. Io, quando dicono sì, quello è, no, quello ci fa ma non è, mi sento malato. Cielo. Che schifezza! Ma come fanno?! Lei lo sa?».

Giuro di no, principe. Giuro di no.
«Senta: quand’ero soldato, nella prima guerra mondiale, mandarono il mio reggimento sul fronte francese e ci dettero a tutti un coltello. In treno chiesi al sergente: «Sergente, permette, a che serve u’ curtiello?». E lui: «Ai marocchini, soldato. Devi sempre portarlo con te perché là ci stanno i marocchini i quali fanno certi servizi». Gesù! Mi prese tanta paura che mi sentii male. Aspirai lo zolfo di tutti i fiammiferi del reggimento e mi sentii male. Così svenni e mi feci ricoverare in ospedale. Signorina mia… io la penso così. Forse son rimasto all’antica, ma la penso così.»

Vuol dire, principe, che la Sua epoca non La interessa? Che ci si sente a disagio?
«Esattamente, signorina mia. In questa epoca io ci vivo per sbaglio. Pensi che non sono mai salito in aereo: in materia di aeronautica, sono rimasto ai progetti di Leonardo da Vinci. Non concepisco i mezzi veloci: viaggiare svelti, a che serve? Io ho l’automobile ma tengo un autista pieno di figli: così pensa alla pelle e non corre. Andiamo pianissimo, non superiamo mai i 40 all’ora, non prendiamo mai l’autostrada. Capisce bene che a me piacerebbe avere una carrozza, un cavallo: per dargli lo zuccherino, sa, le manate sul popò… E se non lo tengo è perché non posso andare in carrozza, perché mi sfotterebbero. Cosa dice? Viaggiare? Che m’importa viaggiare? Un po’ più bianchi, un po’ più neri, un po’ più freddi, un po’ più caldi, gli uomini son tutti uguali, i caporali son tutti uguali».

Chissà che fastidio, allora, quando Sua moglie Le legge degli astronauti e delle cosmonavi…
«Disinteresse e fastidio. Ma via! Le pare giusto andare da Roma a Napoli in un’ora e mezzo? Pensi che bellezza quando ci si metteva ben 7 ore, una notte intera col vagone letto! La luna, la luna! Signorina mia, in quella gente io non vedo nemmeno il coraggio. Ad andar sulla luna con l’aeroplano, quale coraggio mi ci vuole? Forse posso difendermi dall’ aeroplano? Farci a cazzotti? Sarebbe come dire che mi difendo dal 13, dal 17, dal gatto nero, dalla coppia di monache, dalla gobba, dalla civetta, dal sale che cade, dall’olio che si versa, dallo specchio che si rompe, dal viola… Non so se ha capito che son superstizioso».

Dica: è superstizioso?
«Maledettamente superstizioso. Io, quando è martedì e venerdì, 13 o 17, può cadere il mondo: mi chiudo in casa».

Perché, principe? Ha paura di morire?
«No, di morire no. La morte è una cosa naturale e averne paura è da fessi. Io, la prima cosa che ho fatto quando ho guadagnato nu poco di soldi, è stato comprarmi una cappella a Napoli: per andarci ad abitare da morto. C’è già la tomba e sopra c’ è incisa già la data di nascita e il nome. Il giorno della morte è in bianco. No, non mi importa morire. Mi importa, ecco, invecchiare. Quello proprio mi disturba, mi secca. Sapesse che dramma sentirsi giovani e poi guardarsi allo specchio, vedersi un volto pieno di rughe, una testa di capelli grigi… Gesù! Che schifezza! Cosa dice?! Maturità?! No, no, bella mia: lei non mi incanta coi discorsi sulla maturità. Io vorrei essere immaturo e aver 18 anni. Che dice?! Povertà?! No, no: io me ne infischio della povertà. Io vorrei essere povero e aver 16 anni. Macché 16! Quindici. Tredici. Nove!».

Dica, principe: ma Lei, quando invoca i santi, lo fa per abitudine o per fede? Insomma, Lei è religioso o no?
«Religioso?! Religiosissimo! Vado a messa, mi comunico, e ci credo. Pensi che volevo fare il prete, da giovane… Ho studiato, da prete. E le dico di più: se i frati potessero avere le donne, mi farei subito frate, e sarei un ottimo frate. Non bevo, non bestemmio, non sono geloso, i dolci non li mangio mai, non conosco le carte… Infatti abbandonai l’idea di diventar prete proprio quando scappai con una canzonettista, a vent’anni. Ma che ci vuol fare: io, quell’affare della castità, non lo capisco. Lo trovo così disumano, innaturale. Il cielo, tuttavia, guai a chi me lo tocca. È dunque per questa religiosità che ha preso tanto filosoficamente la disgrazia degli occhi? Mi accorgo ora che non mi ha mai parlato degli occhi: che sono molto ammalati, lo so. Per raziocinio, direi. Io sono un uomo molto logico, vede. Sono un ragionatore. Non per nulla vengo da una città di avvocati, credo anzi che sarei stato un meraviglioso avvocato. E secondo logica, dico: stabilito che le disgrazie sono fatte per gli uomini, perché arrabbiarsi contro le disgrazie? Sarebbe come arrabbiarsi perché piove, o perché c’ è il sole, o perché si muore. La morte esiste, la pioggia esiste, la cecità esiste: e ciò che esiste va accettato. Disperarsi a che serve? A vederci meglio? Bisogna adattarsi: prima per esempio scrivevo a mano, ora detto al magnetofono. Prima leggevo molto. Ora mi faccio leggere. E poi proprio cieco non sono: da un occhio, sì, non vedo quasi nulla, ma dall’altro vedo la periferia. Cioè, se mi metto di profilo, io frego l’occhio e la vedo come se stessi di faccia. Posso anche recitare e, infatti, vede: continuo a lavorare, lavoro. Né questo mi rende infelice. Signorina mia, ciascuno ha da portare una croce e la felicità, creda a me, non esiste. L’ho scritto anche in una poesia: «Felicità: vurria sapé che d’è / chesta parola. Vurria sapé che vvo’ significà». Forse vi sono momentini minuscolini di felicità, e sono quelli durante i quali si dimenticano le cose brutte. La felicità, signorina mia, è fatta di attimi di dimenticanza.”

E quando recita, non Le capita di essere un pochino felice? A vederLa si direbbe di sì.
«Quella non è felicità, è un’altra cosa: che non so spiegare. Recitare, vede, per me è come una droga. Meglio: un ossigeno. E se lei tenta di intervistarmi su questo, non ne ricava risposta. Per esempio, se mi chiede: come fa a esser tanto snodabile? Io le rispondo: non lo so. Non sono mai stato ginnasta, l’ unico sport che ho praticato è stato il ciclismo: quand’ero ragazzo. Ciclismo!… Andavo in bicicletta. Se lei mi chiede: come fa a far le capriole, ad arrampicarsi sui muri come una mosca? Io le rispondo non so: dicono che dipenda dai muscoli allungati, quindi flessibili. Ma cosa voglia dire, boh! Se lei mi chiede: come fa a inventare quelle espressioni buffe, quelle smorfie? Io le rispondo non lo so. Non è una disciplina, non è uno studio. È un istinto. Una roba che succede da sé, quasi indipendentemente dalla mia volontà. Sicché è inutile che i critici mi rimproverino perché faccio sempre le medesime cose da decine di anni, perché sono sempre lo stesso. Le medesime cose non le faccio: sono passato con disinvoltura dalla commedia dell’ arte alla prosa, all’operetta, al varietà, al cinema, alla rivista, alle canzoni, e ora giro un film, Il comandante, che è un film serio: quindi diverso. Ma che io sia quello e non altro, non v’è dubbio. Perché non sono io che comando la mia faccia, è la mia faccia che comanda me».

Principe, posso farle una domanda?
«Prego, si accomodi».

Ecco: ma a Lei… a Lei piace Totò?
«Le rispondo una cosa che non ho mai detto a nessuno, una cosa cui non crederà: ma vorrei ci credesse perché gliela dico col cuore in mano, signorina mia, glielo giuro sulla tomba di mia madre. Non mi piace neanche un po’. Anzitutto non mi piace come uomo: fisicamente. Signorina mia… ma l’ha visto, lei, quant’è brutto? La faccia, signorina mia… ma l’ha vista? Tutta torta, tutta asimmetrica. La parte di sinistra, passi: è una faccia lunga, una faccia triste. Ma la parte di destra, Gesù! Maria! che roba è? Buffa, dice lei. Senza dignità, dico io. Ah, come odio quella parte destra, quel mento! Dunque: anzitutto Totò non mi piace fisicamente. Poi non mi piace come personaggio… Perché, dice lei. Perché… non lo so: mi sta antipatico. Io quando mi vedo, o meglio quando mi vedevo al cinematografo, il che capitava assai raramente perché ho sempre detestato guardarmi allo specchio o sullo schermo, io mi guardavo e pensavo: Gesù, quanto è antipatico, quello. E poi Totò non mi piace come attore, come recita. Perché?, dice lei. Perché non lo so, perché non mi fa ridere. E badi che i film umoristici a me piacciono, divertono. Mi diverte Alberto Sordi, mi diverte Ugo Tognazzi, mi divertiva Charlot. Ma questo Totò, parola d’onore, non mi diverte per niente».

Per questo, principe, quando lavora, chiede sempre: «Sono stato bravo?», «Posso continuare così?». Per questo m’ha accolto così gentilmente ed è tanto modesto? Per questo.
«Io, signorina mia, sono afflitto da un brutto complesso: il complesso di inferiorità. Inferiorità fisica, inferiorità intellettuale, inferiorità culturale. Per esempio: non sono un uomo colto, e questo mi pesa. Vorrei aver studiato di più, aver letto di più, aver guardato di più… Vorrei esser stato più curioso, io non sono mai stato curioso. Osservatore, sì, tutti i miei personaggi nascono dall’ osservazione, ma curioso mai. E ora che sono mezzo cieco e non posso curiosar più, legger più, studiar più…».

Si consoli, principe: al vocabolario c’è arrivato lo stesso. Guardi. (Gli porgo, disattentamente, un giornale). Lo legga. Che dice? Dice che è uscito un libro, Storia linguistica dell’Italia, dove Lei vien citato come esempio di efficacia linguistica e dove le Sue espressioni “fa d’uopo”, “quisquiglie”, “pinzillacchere”, son riportate come espressioni ormai entrate nell’uso comune. Quindi nel vocabolario.
«Oh! Oh! Oh! Che bello! Questa sì che è una gioia, un onore, un piacere. (Afferra il giornale, tenta inutilmente di leggerlo, e i suoi occhi sono lucidi). Cara, quanto è cara! Chi glielo ha dato?».

Un Suo ammiratore coltissimo: il quale ha saputo che venivo da Lei. Era molto eccitato all’idea che venissi da Lei. Anzi, Le dirò principe: tutti coloro cui ho detto che venivo da Lei erano molto eccitati. Lei è molto amato dagli italiani, sa?
«Ah, sì? (Si stringe impercettibilmente nelle spalle e i suoi occhi cessano di colpo d’essere lucidi). Forse. Visto che mi faccio i fatti miei e non do mai fastidio. (Guarda intorno, distratto)».

Principe… mi viene un sospetto.
«Quale, cara?».

Che non le importi un fico d’essere amato. Proprio niente. (Mi avvicina le labbra a un orecchio).
«Detto fra noi, non me ne importa un bel niente. E non mi importa nemmen di piacere. Nell’uno o nell’altro caso, io tiro a campà. Tanto, il bene, me lo voglio da me».

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