"Numero Zero" di Umberto Eco forse un libro sbagliato

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Ho letto - due volte, come al solito, perché se non lo leggi almeno due volte un libro non lo vedi bene - Numero Zero di Umberto Eco. Mi sembra un libro sbagliato. Non per quel che dice (che è scontato), ma per il fatto stesso di dirlo e per di più in forma di romanzo. Mi spiego.

Parla di una redazione immaginaria che dovrebbe approntare una serie di numeri zero (numeri che non saranno mai pubblicati, di prova) per un giornale che deve fungere da copertura dei traffici politici e finanziari dell’editore, tale Vimercate, che ha le mani in pasta in tutte le attività remunerative della Repubblica. Chi ha accettato di guidare il gruppo dei giornalisti è una persona che chiamare scorretta sarebbe fargli un complimento. Gli altri - tranne il narratore e quella che poi diventerà la sua amica del cuore - non sono da meno. Loro sono solo dei perdenti.

«Ho disegnato - ha detto Eco in un’intervista - il peggiore dei casi, per dare un’immagine grottesca di quel mondo».

Perfetto. Roberto Saviano, dialogando con lui nel corso della medesima intervista, ha detto: «Immagino che volessi costruire un romanzo che riuscisse a dire una molteplicità di cose. Ma per me è quasi un manuale della comunicazione del nostro tempo».

In effetti è così: un manuale sulla comunicazione, ma “quasi”. Che per Saviano vuol dire che, essendo un romanzo, non gli si fa un complimento se lo si riduce a un manuale. Per noi quel “quasi” significa invece che avrebbe potuto essere un saggio sulla comunicazione, e invece ha finito per essere un racconto perché scrivere racconti è più semplice che scrivere saggi rigorosi. E poi vende di più, che non fa mai male. Ma se anche fosse così non ci sarebbe di che eccepire. Anzi.

Il guaio è che il contenuto del manuaromanzo si presenta - forse proprio grazie al lungo lavoro accademico di Eco e ad alcuni interventi televisivi di Saviano sulla “macchina del fango” - come una materia nota, fin troppo scontata. Accade così che le persone che potrebbero ritenersi interessate a conoscere più in profondità i meccanismi segreti che regolano i rapporti fra la stampa, la politica e i loro sottoboschi, restano deluse: «D’accordo - diranno - ma c’era proprio bisogno di raccontarci una volta di più la solita storia di Mani Pulite e dei suoi dintorni?». Senza aggiungere niente di quel che già sappiamo, per di più.

Mentre gli altri - quelli che i giornali li leggono di fretta, o che quella stagione a Palazzo di Giustizia di Milano non l’hanno conosciuta, perché son troppo giovani - non ci capiranno niente o quasi. L’esposizione delle vicende che hanno interessato la nostra penisola nel ’92 (il romanzo si svolge dall’aprile al giugno di quell’anno e in forma di appunti) è infatti intersecato da un fantasioso resoconto della morte di Mussolini confidato come uno scoop da un redattore paranoico al narratore - che è anche protagonista - del romanzo. L’arresto di Mario Chiesa alla Baggina e quello di Benito Mussolini a Lenno viaggiano insieme forse per dire che in certo senso chi vuole disinformare ha sempre saputo come comportarsi. «Il meccanismo della macchina del fango, dell’insinuazione era usato già ai tempi dell’Inquisizione», ha voluto aggiungere Eco nell’intervista. Appunto: anche questo lo sapevamo già.

Invece ci rimane una domanda. Si dice - fra le persone competenti e studiate - che nei romanzi, se qualcuno parla di un chiodo su una parete, quel chiodo, prima o poi, dovrà tornar fuori nella narrazione, in modo da svelare il suo ruolo. Qui invece, nel capitolo iniziale, c’è un certo prof. Di Samis che poi si perde nella nebbia. Alla fine dello stesso capitolo il narratore dice però che «La paura di morire dà fiato ai ricordi». Il narratore è dunque uno che racconta perché ha paura di morire. E in un’intervista all'Espresso Eco ha ammesso: «È chiaro che tutti i grandi cambiamenti ci terrorizzano. Ma sa, a me tutto sommato resta poco, però ho dei nipoti, e mi auguro che imparino a vivere in queste prospettive». Prospettive terrorizzanti, si capisce.

Non so. La frase in epigrafe del libro suona: «Only connect!» (collega le due cose). Appartiene a un romanzo di E.M. Forster (Howards End) dove l’esclamazione prosegue: «Collega le due cose! […] Metti insieme la prosa e la passione, ed entrambe ne risulteranno esaltate, e l’amore umano apparirà nella sua forma più alta. Smettila di vivere di frammenti. Collega le due cose e la bestia e il monaco, sottratti all’isolamento che è la vita di entrambi, moriranno».

Il collegamento fra prosa e passione è stato tentato, ma qualcosa di funereo, in questo libro, c’è rimasto. Di amoroso, proprio non direi.

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