Un libro bello, anzi bellissimo

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È un libro bello, anzi bellissimo. È scritto bene, anzi benissimo. Si intitola La Svedese (Verdechiaro Edizioni) e la sua autrice è Anna Pavignano: al suo attivo una lunga carriera di scrittrice e sceneggiatrice, in particolare dei film di Massimo Troisi, di cui stata anche compagna di vita. La Svedese è un libro che muove e sommuove, che urta ed è capace di scalciare nel petto con calci di mulo, cadenzati, impietosi. Un romanzo che sembra lieve, perfino semplice, ed è invece complesso quanto può esserlo l'animo umano, che per dirla con Marquez «ha più stanze di un casino». È una storia che prende ed esige immediata e totale partecipazione, mentre sale una specie di acido in gola, perché tante cose in quelle esistenze raccontate non tornano e non riescono ad andar giù. Se Anna voleva generare emozioni e impressioni speciali ci è riuscita. A cominciare da me che qualche libro nella mia ormai lunga vita ho letto e qualche altro scritto.

Che cosa mi ha suscitato? Semplice: indignazione, profonda indignazione. Non è possibile tollerare che una ragazza piacente, Livia, per niente stupida, corteggiatissima, scivoli nella follia ossessiva di un sentimento che lei chiama amore ed è invece paranoia conclamata. Pagina dopo pagina si assiste al declino di una giovane vita, alla sua deriva mentale, preda di un sogno ormai trasformato in terrificante incubo. Fa venire i nervi, dispiace e non sembra possibile.

Per fortuna compare Platone sovviene sul tappeto volante delle reminiscenze: amare spesso rende folli. Faccio un po' pace con Livia e vado avanti. Mi fermo: ma è possibile innamorarsi di un tipo dal nome fesso come questo Milo, che per di più mi è subito stato antipatico per essersi presentato a un appuntamento nel centro di Torino con la barba incolta e in tuta? Orrore! Il mio senso estetico ne viene turbato e quel particolare picchia dentro di me con l'insistenza del canto del gallo. Non mi dà pace: meglio l'arrosto di pollo che sentire il suo verso impertinente e insistito. Il lettore capirà perché.

Insomma la nostra Livia. che banalmente si è presa una cotta per uno sposato, condizione che si verifica probabilmente ogni trenta secondi in gran parte del pianeta, fa crescere dentro di sé il tarlo dell'inadeguatezza nei confronti di tale Sara, brandello sfumatissimo di una storia passata del nostro protagonista, fino a pretendere di incontrarla. Prima la spia, poi entra nella sua vita: imitando ogni suo gesto, vestendo come lei, pettinandosi e truccandosi a quel modo. E tutto questo per un’immersione in apnea nelle acque più profonde e inesplorate del suo amore, ormai fonte di strazio e dolore. La mente vacilla, lei un po' somiglia al padre che era stato un abile saltimbanco nel modo di gestire moglie e amante fino all'autodistruzione con l'alcol. Anche Livia comincia a bere, la disperazione è al culmine e la strada già strettissima sembra senza più via d'uscita.

Eppure, per dirla con una famosa massima buddista, «tanto più la notte è fonda, quanto più si avvicina l'alba». Un speranza aperta sulla finestra della sofferenza e di una straziante crescita interiore. E intanto il gallo continua a cantare.

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