La "bergamaschità" è in via d'estinzione

Dei 7 comandamenti bergamaschi ai giovani è rimasto soltanto il pòta

Dei 7 comandamenti bergamaschi ai giovani è rimasto soltanto il pòta
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Foto in apertura di Francy Quadri

 

«Lungi da noi», dicono i giovani. Un sistema di valori che non appartiene più a nessuno, almeno nelle nuove generazioni. E che, anzi, fa anche un po’ arrabbiare e viene percepito, soprattutto in alcuni punti, come fondamentalmente ridicolo. E non è nemmeno questione di conflitto generazionale: «È un sistema superato perché finalmente le conquiste sociali sono arrivate a tirare fuori dalla gabbia anche i figli delle province», dice Francesco, un ragazzo intervistato fuori dalla biblioteca di Sant’Agostino.

 

Fà l’òm

Uno dei punti più contestati. Perché la virilità made in Bergamo è una cosa «noiosa», «uno sforzo inutile», addirittura «una pagliacciata». Sempre Francesco, in grande spolvero, attacca: «La maggior parte delle persone che si vantano di essersi sempre prese le proprie responsabilità con quel modo di fare minaccioso e arrogante mi ricordano Fantozzi: a casa e con gli amici fanno i leoni, poi finiscono “crocifissi in sala mensa con i diti intrecciati”. Dire di prendersi sempre le proprie responsabilità non significa farlo davvero: con un minimo di onestà intellettuale chiunque troverebbe un episodio in cui ha deciso di lavarsene le mani. Motto ipocrita di una generazione passata che cerca di collocarsi nella leggenda per valori che non ha mai realmente avuto, e la cui unica colpa, a mio avviso, è aver millantato il contrario». Per Beatrice si tratta invece di un’espressione «senza senso, proprio a livello linguistico», mentre Giulia spiega: «Non tiro in ballo questioni sui retaggi linguistici del maschilismo perché non voglio fare polemica. Purtroppo anche molti giovani lo considerano ancora un valore e usano spesso espressioni simili a queste». «Responsabilità e spalle larghe? Sì, idealmente sarebbe bello. Ma quando sento mio padre vantarsi delle responsabilità che si è sempre preso e delle prove enormi che ha dovuto superare, mi cadono le palle. Perché fondamentalmente non è vero, e lo sa anche lui. Basta con queste narrazioni epiche di sé, basta prendersi in giro da soli. Troverei più sensato lavorare per dare dignità ai limiti, anche quelli più meschini». Parole dure anche quelle di Gabriele, insomma: l’imperativo “fà l’òm” bocciato su tutti i fronti.

 

Fà mia ol löciaègie

Al secondo imperativo va anche peggio: «Mia mamma me lo diceva da piccolo ogni volta che mi azzardavo a piangere. Ma piangere è bello e liberatorio, e le emozioni sono l’unica cosa che danno senso alla vita, dato che non siamo altro che ciò che percepiamo. Quando sento qualcuno dire che gli uomini non piangono mi viene voglia di prenderlo a calci negli stinchi finché non si smentisce da solo con i fatti. Deboli di fronte alle evenienze della vita? Certo che lo siamo. Tutti lo sono. Per trasformare le debolezze in punti di forza occorre riconoscerle e imparare a conviverci. Costringersi a sopportare l’insopportabile non rende forti: è solo apparenza». Parola di Cristian, 23 anni, studente, a cui fa eco Marco, anni 21, studente di chimica ma idraulico in estate: «Questi precetti mi hanno saturato. Li sento da quando sono alto così e li trovo patetici. Molto più di un pianto».

 

Sta lontà di fòmne

«Da far accapponare la pelle»; «agghiacciante»; «mi auguro che nessuno che sia nato dopo il 1960 pronunci ancora frasi di questo genere»; «la donna al massimo assurge al rango di regina del “vaff****o” se sente ancora discorsi in cui si sviluppano concetti come questo»; «capita ancora che ragazzi giovani concepiscano la donna in questo modo»; «mi rifiuto di analizzare seriamente questo punto, ma anche stando in superficie: ti pare plausibile? Io, per le “fòmne” ci vivo!»; «per fortuna i maschilisti di provincia si estingueranno nel giro di due generazioni. Almeno spero. No? Non sarà così? Dici?»; «liquidità, edonismo e conquiste sociali rendono antiquata e patetica questa affermazione»; ecc. ecc. ecc. È sufficiente per capire la popolarità di questo precetto tra i giovani?

 

Ü di nòste bande

«Questo non l’ho nemmeno capito. Di base non mi sembra difficile: chi è nato a Bergamo o chi si è “fatto adottare” da Bergamo, è bergamasco». Parola di Laura, studentessa di Psicologia. In generale il campanilismo estremo è vissuto come una parodia, almeno tra i nostri ragazzi intervistati: «Ricordo che da piccolo ho frequentato sia il Cre di Redona, sia il Cre di Monterosso. Penso e spero si scherzasse quando si cantava “Redona brucia” o quando la peggior minaccia era “ti mando al Cre di Monterosso”. In generale, il senso di appartenenza è una cosa positiva quando non diventa pretesto di esclusione, ma penso sia pacifico anche tra i più “vecchi”». Lo dice di nuovo Francesco, fuori dalla biblioteca di Sant’Agostino. Eleonora ci racconta invece quanto nei paesi questa concezione abbia delle ripercussioni negative: «Mia mamma mi racconta sempre che quando rimase incinta di me, fuori da un matrimonio, tutta Ranica voleva sapere chi fosse il padre, motivando l’invadenza con frasi del tipo “è giusto che la comunità lo sappia”. Era il 1997, non troppo tempo fa... Oggi non so come funzioni, e sinceramente non mi interessa».

 

Parla còme te màiet

Uno dei punti che, anche se abbondantemente smussato e corretto, raccoglie più consensi (o meglio, più tolleranza). «Credo – dice Beatrice – che da un lato sia giusto sforzarsi di parlare correttamente, e volendo anche in modo forbito (per l’amor di Dio, se non il latino, almeno l’italiano...). D’altra parte penso che se l’intenzione di una persona è la conversazione e non il puro autocompiacimento, dovrebbe sforzarsi di parlare in modo corretto, ma semplice». «Sono convinto – dice invece Marco – che sia molto semplice: la lingua deve semplicemente adattarsi al contesto». Per Lucrezia, invece, «chiunque ha l’ambizione di avere competenze retoriche, e un minimo vengono insegnate in quasi tutte le scuole. In generale, l’importante è essere chiari e sapersi adattare alle competenze richieste nelle varie situazioni». Insomma, ben venga «la favella», ma senza esagerare.

 

Cassa dèt ol cò ‘n césa

Questo precetto nasconde quello che per la chiesa è un problema anche piuttosto sentito: i giovani in chiesa non ci vanno. Punto. Sarà il trionfo della scienza, sarà la frenesia moderna, sarà che semplicemente è normale a vent’anni non preoccuparsi del dilemma “Dio sì o Dio no?” o che la cultura educa all’esercizio del dubbio, allontanando da Dio; sarà che la chiesa non riesce a incontrare il consenso della maggioranza dei giovani su questioni particolarmente sentite (leggasi femminismo, leggasi diritti civili, leggasi contraccezione e aborto, solo per citare i temi più caldi). Queste, in linea di massima, le argomentazioni dei giovani. La tesi, ovviamente, è che questo precetto non è più condiviso, almeno dai più. E se non si bestemmia è solo per questione di finesse.

 

Pòta

Pòta, almeno questo mette d’accordo tutti...

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