Tra ricordi e umorismo

Intervista a una nonna valdimagnina Incarnazione della bergamaschità

Intervista a una nonna valdimagnina Incarnazione della bergamaschità
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Alice Belotti, nata a Ca’ Büs, contrada di Mazzoleni a Sant’Omobono Terme in Vallimagna l’11 novembre del 1935. Dopo un’infanzia affamata, ma divertente, ha iniziato ben presto a lavorare a Milano, in casa di gente benestante come donna di servizio. A Milano ha conosciuto Pietro, che ha sposato nel 1955 nonostante lui avesse ben 17 anni più di lei. La differenza di età non li ha infastiditi, perché il loro matrimonio è durato ben 59 anni. Tornati a casa, in Vallimagna, hanno lavorato al maialificio Rossi, e poi la nonna ha aperto un negozio di vestiti, fino alla sua pensione. Da allora fa la nonna a tempo pieno e soprattutto la cantastorie.

 

Oggi parla una persona speciale per me, la cui storia e personalità mi hanno influenzato e continuano a farlo. Alice Belotti, mia nonna. Decido di intervistarla come incarnazione della “bergamaschità”. Sotto la scorza un po’ ruvida e sbrigativa sono racchiusi tanta tenerezza e tantissimo umorismo. Impossibile non ridere quando racconta le sue storie, quella della “sua gente” come ama dire lei.

Prego nonna, partiamo dall’inizio. Dove sei nata?
«A Ca’ Bus, proprio lì a Mazzoleni (frazione di Sant’Omobono Terme). Sono nata lì e mi sembrava il posto più bello del mondo. Avevamo una casetta e noi, lo sai, eravamo anche in tanti. Io ero la quinta di otto fratelli. Morto solo uno, ma allora sai era una cosa normale».

E i tuoi genitori cosa facevano?
«La mia mamma cuciva ed era lei che tirava la baracca. Giorno e notte, notte e giorno sempre a cucire. Faceva i calzoni agli operai, rattoppava le divise e faceva di tutto. Mio papà invece aggiustava gli orologi. Faceva l’urìes (orafo, tradotto letteralmente, anche se di oro non ce n’era neanche “in figura”). Girava dappertutto, anche in Valbrembana, tutto a piedi. Aveva una cassettina che si metteva a tracolla con tutti gli strumenti per aggiustare gli ingranaggi. A volte andavamo anche noi bambini, tutto a piedi sempre. Quando arrivava alle contrade si metteva a urlare “gh’è ché l’urìes” e la gente che aveva bisogno scendeva con le sue sveglie rotte. Aggiustava anche sul posto, perché era svelto eh!».

E a parte seguire tuo papà, cosa facevano i bambini?
«C’era la scuola, ma era solo una parte della giornata. Avevamo capre e pecore che erano la nostra sopravvivenza, e in più andavamo a legna tutti insieme, anche con i nostri cugini. Da Mazzoleni andavamo tutti i giorni fino a Rota dove c’era il pascolo. E intanto giù a raccogliere legna a più non posso per portarla a casa la sera».

Anche tu raccoglievi la legna o solo i tuoi fratelli?
«No macché! Tutti facevano tutto».

Parità dei sessi?
«Se si trattava di lavorare, en ghe ardaà mìa prope a töt. L’unica cosa che non facevano i maschi era cucinare, in casa mia. Per il resto facevano tutto».

Giusto, cosa mangiavate?
«Ti parlo di quando ce n’era, erano già bei tempi. Quando eravamo tutti piccoli, a volte non c’era niente. Nei tempi buoni avevamo la polenta, le verze, il latte e il maiale. Quando se copàa òl porsèl era una festa perché per un po’ si poteva mangiare la carne. Allora c’era da preparare i cotechini e tutto il resto, e quando restava solo la pelle si tirava via tutto il grasso e si faceva sciogliere nella pentola. Poi si riempiva la ula (anfora) di terracotta, che poteva toccare solo mia mamma perché se l’avessimo rotta erano zoccoli che volavano. Si riempiva la ula e il grasso sciolto si rapprendeva e diventava una specie di burro. Ecco, quello lì era il condimento per tutto l’anno! Faceva il soffritto e il pucio per tutto insomma. E ci conservavamo dentro anche i cotechini per il pranzo di Natale».

Ma non faceva male mangiare il grasso così?
«Non fa male perché te ghìet negòt! Per tutto l’inverno quel grasso lì rendeva un po’ saporite le cose, tipo le verze che noi facevamo congelare».

Avevate un congelatore, nonna?
«Congelatore della Vallimagna. Raccogli le verze, le metti a testa in giù nella terra e le copri. Poi viene il gelo e quando le tiri fuori con la zappa sono belle croccanti! Ma non si ghiacciano, si conservano bene. Fatto il freezer, capito?».

Avanzatissimo. E l’estate com’era?
«D’estate non c’era la scuola, ma ci toccava correre lo stesso. Qui venivano i villeggianti da Milano che andavano a Costa Imagna. Bisognava scendere a Capizzone e prendere la corriera, ma alcuni di loro sbagliavano e arrivavano fino a qui. Allora noi aspettavamo fuori dalla corriera per prendere le loro valigie e gliele portavamo su fino in Costa. A piedi!».

A piedi? Ma sono 10 chilometri!
«Andavamo di corsa e poi tornavamo stràc morch... Ma saltando, perché quelli che venivano dalla città ci davano i soldi veri, perché loro lavoravano in fabbrica. Altrimenti noi non ne vedevamo mica qui, di monete. Con quelle tornavamo e potevamo comprare le spolette per la mamma che cuciva, perché la merciaia voleva essere pagata in lire, mica in verze. Altrimenti per il resto, noi si pagava tutto in natura con la gente del posto. Realtà sacrosanta».

E poi come sei finita a Milano a lavorare?
«Ho lavorato anche qui a Bergamo eh! Non è che ho lavorato solo quando sono andata giù».

Scusa, raccontami prima i lavori bergamaschi.
«Dopo la quarta elementare non c’era più niente, la quinta la facevano solo gli sciòr, come fare l’università. Allora sono andata un po’ a fare la cameriera e lavapiatti qui in paese, avevo nove anni e non arrivavo al lavandino. Finché una mia cugina, che lavorava come donna di servizio a Milano, mi ha trovato una famiglia di dentisti che cercava una ragazza».

Quanti anni avevi quando sei partita?
«Dieci o undici. Come non mi piaceva Milano quando sono arrivata. La padrona era incinta, ma nonostante quello era scorbutica. Mi facevano dormire in uno sgabuzzino e mi davano pochissimo da mangiare, nonostante mia mamma si fosse raccomandata di non farmi soffrire la fame. Mi mancava la mia casa, e non ho visto nessuno della mia famiglia per undici mesi. Quando è venuta mia mamma a trovarmi mi sono messa a piangere e l’ho tenuta stretta per non farla andare via senza di me. La padrona me le dava di fronte a mia mamma perché non voleva farmi andare via. Allora mia mamma mi ha difeso: «La se ergogna mìa sciùra? Arde che me la mé scèta l’ò mìa röbada, l’ò fàcia sö come’l so». E ha preso su le mie poche cose. Sono tornata a casa».

Eri contenta?
«Facevo i salti così, anche se non è che la Vallimagna era diventata la terra delle delizie. Però io ero così contenta, e per un po’ di anni ho trovato dei lavori qua in giro, in famiglie di Bergamo importanti o quando c’era lavoro qui nelle tornerie. Poi sai, quando ho compiuto 14 anni potevo essere assunta e avere il libretto in regola della mutua. Poi però qui durava tutto poco, andava tutto in malora subito. A 16 anni sono dovuta tornare a Milano».

Che lavoro facevi stavolta?
«Sempre in una casa, avevo conosciuto i signori Rossi che avevano la villa dove c’è adesso la Villa Ortensie. Loro erano di Milano e sono andata a servire a casa loro. Questi padroni erano più umani e mi sono trovata benissimo, era il mio mondo proprio. Lavoravo anche con mia sorella. Ero contentissima».

Ormai eri una signorina nonna. Il nonno quando entra in scena?
«Ah, il nonno faceva l’autista per questo signor Rossi. Lavorava anche nella sua officine. Ma lui sai che era molto più grande di me (17 anni di differenza), mi stava dietro, ma sai... ghe tegnìe mìa prope tàt alura, sinceramente».

Avevi altro a cui pensare?
«Mia sorella voleva a tutti i costi andare a ballare e io dovevo accompagnarla perché non voleva andarci da sola. A me piaceva uscire, ma ballare non mi attirava, stavo anche lì tranquilla a sentire la musica. Ma niente, continuavano “la faccio imparare, la faccio imparare”. Io non volevo imparare, chèi laùr lé de parpaiùse, ma mia sorella continuava a insistere. E così avevamo tutti questi qui che ci stavano dietro, sai. Bei ragazzi eh, che ci piacevano anche, mica strambài. Ma dopo un po’...».

Dopo un po’?
«Dopo un po’ venivano al dunque! E lì, bisognava lasciarli. E io e mia sorella ci dicevamo “Possibile? Non avremo mica scritto su...”, e chiedevo alle altre amiche e loro mi dicevano “Nononoassolutamente” sempre tutte contente. Ma noi andavamo sempre fuori con quella paura addosso e poi ti toccava lasciarli sempre per chèl laorà lè, sempre. Non ci avevano insegnato così. Eravamo disperate, quando dicevamo le preghiere la sera insieme ai bambini dicevamo sempre “Signùr, tegnem la mà söl... cò” (e qui la nonna ride, immaginate voi quale sia la parola che realmente pensavano), fa che me sbande mìa”».

E il nonno come ha fatto a convincerti?
«Ah no niente l’ho preso io per la disperazione, perché tanto la storia era uguale per tutti. Una volta sono uscita anche con il bottegaio, che non era tanto bello, ma mi sembrava una persona molto seria. Ho provato a uscire due volte, ma niente, uguale agli altri! Allora a quel punto tanto valeva andare con i ragazzi più belli. Ma prima di fidanzarmi col nonno, ne avevo un altro di qui, Luigi di Mazzoleni. Ma era un amore tutto... letterario».

Vi scrivevate?
«Certo, parole buone, infuocate. Lui era in Svizzera e io a Milano. Otto mesi di lettere, poi in inverno lui doveva tornare a casa, e io ero tornata apposta da Milano per vederlo. Sai dopo otto mesi e una parola e l’altra, ero tutta contenta. Niente, l’ho aspettato tutto il giorno fino alla sera. Il giorno dopo mi manda a dire tramite un suo fratello che non si era sentito bene, ma lui non si era presentato neanche il giorno dopo. Io piangevo e piangevo, una delle mie sorelle mi ha visto e mi ha chiesto cosa avessi. (La nonna prende in mano il cucchiaio di legno). “Malato?” mi dice mia sorella “ma se l’era ciòc là in contrada!”. Io a sentire ciòc, basta, mi è caduto tutto. Gli ho scritto una lettera di “congedo”».

Poi è arrivato il nonno?
«Ci siamo sposati nel ’55 a Milano, io avevo vent’anni e lui 17 anni in più di me. Poi l’anno dopo è nato tuo papà. Allora il padrone, il Rossi, ci ha chiesto se volevamo tornare in Vallimagna, visto che eravamo tutti e due di Sant’Omobono e ci eravamo incontrati per caso a Milano. Noi abbiamo accettato subito, perché casa tua è sempre il posto più bello del mondo e siamo andati a fare i fattori lì al maialificio, dove adesso c’è la Villa Ortensie».

Eri contenta di aver sposato il nonno?
«Sì, poi sono sempre stata contenta. Ho dovuto imparare a conoscerlo un po’. Sai com’era tuo nonno, besognàa lagàga la corda mòla!. Ho imparato anche a diventare più forte e a non aver paura degli uomini. Una volta ti facevano venire paura, non ti facevano educazione sessuale».

Come ti hanno spiegato il sesso quando eri piccola?
«Arda che se te sbagliet, tè pödet saltà do del quint pià!».

Efficace. Nonna, riassumi la tua vita in una frase.
«Una seria, la vita è come la notte, bisogna combattere ma poi si esce sempre, in qualche maniera».

E quella non seria?
«Signur, tègnem la mà söl... cò!».

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