Un'esperienza nuova

Metti un piatto da Dina a Gussago Cucina narrativa, menù criptico

Metti un piatto da Dina a Gussago Cucina narrativa, menù criptico
Pubblicato:
Aggiornato:

Alberto Gipponi ha due cicatrici sulle mani, simmetriche, come un tatuaggio. Le indossa quasi come se fossero due simboli da sciamano, tacche indelebili di una storia recente. Se le è procurate con un incidente sfortunato, con l’olio bollente, nel suo ristorante a poche ore dall’inaugurazione ufficiale. Ma nonostante tutto il ristorante ha aperto. Si tratta del Dina, in via Santa Croce 1 a Gussago, in provincia di Brescia, a mezz’ora di macchina da Bergamo.

 

 

Una cucina narrativa. Un’apertura recentissima, meno di tre mesi, ma già molto chiacchierata, forse perché lo chef viene dritto da un’esperienza importante all’Osteria Francescana di Massimo Bottura o forse, molto più probabilmente, perché Gipponi è dotato di una indole fortemente riflessiva che, senza troppi filtri, prende forma quando si mette ai fornelli. E anche se non avete mai sentito parlare di lui sotto questo aspetto, l’accoglienza al ristorante sarà sufficiente per farvi intuire che state per sedervi a una tavola che non scorderete. Nel bene e nel male. È una delle variazioni, o derive, della cucina gastronomica propria delle nuove generazioni di cuochi, che si è messa a riflettere su riflettere su se stessa producendo un discorso che sia struttura portante del piatto, a fianco al piatto.

Si potrebbe chiamarla cucina narrativa. Anzi, se ne potrebbe parlare quasi come fosse una vera corrente narrativa, qualcosa che sta emergendo e che forse un giorno potrebbe essere una categoria ristorativa accettata dalla critica. Il fondamento sulla quale si si basa è l’interiorizzazione dalla tradizione orale delle trattorie d’un tempo (dilapidata poi dalla modernità sforbiciante), che timidamente prima e prepotentemente poi, è riapparsa sotto l’etichetta della cucina del buon ricordo: questo lo mangiavo da piccolo, questo me lo preparava mia nonna.

dina 03
Foto 1 di 4
dina 04
Foto 2 di 4
dina 07
Foto 3 di 4
dina 08
Foto 4 di 4

Da perfezionare, ma... Dina infatti, oltre a essere il nome del ristorante di Gipponi, è anche il nome della nonna dello chef. Ma il cuoco non sarebbe riuscito ad aggiungere niente, rispetto ai colleghi della sua generazione, alla famosa emozione del pasto dell’infanzia, se non avesse provato, partendo da qui, a farne un pretesto per costruire un contenitore. Di storie, di cibo, di clienti e di uomini. Questa è la forza dello chef. La sua debolezza è che lo dichiara fin da subito. E ogni volta che lo ripete, la magia si spegne di un pochino. Che stia provando a mettere in scena quella tanto ricercata esperienza sensoriale completa (o cucina totale in senso moderno) che tutti i cuochi vorrebbero donare ai propri ospiti però, è indubbio.

Luogo e menu da scoprire. Non è giusto svelare come è costruito il Dina, perché vi rovinerebbe la sorpresa della vostra prima cena, ma si può accennare almeno a quella «sala di decompressione» nella quale si viene accolti, che sta a metà tra la performance e un bookshop della Biennale. Passata quella si accede, un po’ frastornati, al ristorante vero e proprio, classicamente arredato ma con estremo buon gusto. Il menù è criptico, volutamente incomprensibile: i nomi delle pietanze non lasciano intendere cosa si sta per ordinare ma fanno riferimento a un vissuto che si nasconde dietro la loro preparazione. Un menù che, in altre parole, ti costringe, almeno la prima volta, ad accettare di affidarti completamente alle mani della cucina. Sul tavolo, un diario vorrebbe essere il luogo dove il cliente può raccogliere e condividere le sue riflessioni.

dina 06
Foto 1 di 4
dina 10
Foto 2 di 4
dina 11
Foto 3 di 4
dina 01
Foto 4 di 4

La chicca. Un piatto, sopra ogni cosa, vale il viaggio: il raviolo crudo ma cotto, un singolo raviolo cotto ma che appare agli occhi e in bocca come se fosse appena stato preparato. Un tecnicismo perfettamente eseguito e giustificato solo in un ricordo d’infanzia dello chef. Difficile definirlo in una scala di bontà, ma quello che importa è che ti costringe a riflettere, partendo da un vissuto personale condiviso. Definitivamente il piatto più riuscito della degustazione. Dina è un’esperienza nuova che promette qualcosa di grandissimo col tempo, se resisterà a se stessa.

Seguici sui nostri canali