Un omaggio alla nostra identità

Non vendiamo l'anima al turismo

Non vendiamo l'anima al turismo
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Immagini e video sono tratti da L'albero degli zoccoli di Ermanno Olmi, pellicola del '78 in cui l'identità bergamasca ha trovato una delle sue più alte celebrazioni.

 

Ho provato, prima a Pavia e poi a Torino (e a volte ho pensato che avrebbe ottenuto gli stessi risultati anche a Londra o in qualsiasi altra capitale europea), a chiedere a compagni e conoscenti cosa ne pensassero dei bergamaschi. Le definizioni, dopo le risatine varie sul pota e gli usuali storpiati de sura o de sota, si potrebbero riassumere tranquillamente in quattro aggettivi solo apparentemente contraddittori: lavoratori, schivi, generosi e grezzi. I bergamaschi. Niente da aggiungere, verrebbe da dire. E invece c’è molto. Perché ognuna di quelle parole racchiude un mondo. Un piccolo mondo antico, a voler essere precisi, ostinatamente in contrasto con gli psichedelici tempi moderni.

Ci rimproverano, perché siamo così. Uso il siamo, perché a Bergamo sono nata e in provincia cresciuta, in casa mia si parla ancora il nostro dialetto e se risalgo alle generazioni precedenti di almeno un paio di salti il sangue manifesta un autorevole 100 percento orobico. Dunque, ci rimproverano. Proprio sulle pagine di BergamoPost, due grandi professionisti facevano notare qualche settimana fa che sì, beh, lavoratori incredibili, a oltranza e pure senza un valido motivo, lavoratori così, solo per il gusto di esserlo; e beh, sì, cuore grande, brava gente, volontari d’eccellenza. Però insomma, ecco, testoni, ma così testoni. E orsi, ma così orsi.

 

 

Più precisamente, Sanchez, braccio destro di Gori e grande fautore di quest’evoluzione turistica 2.0 di Bergamo, riconosceva con entusiasmo che «ho avuto da subito la sensazione di trovarmi in una comunità straordinaria, in mezzo a un popolo di una generosità incredibile. Nei primi tempi mi dicevo sempre: ma cavoli, che brave persone sono queste qua. Avete un fondo di bontà e questo è strepitoso». Però poi, lapidariamente, continuava: «Bergamo ha grandi potenzialità ma era autoreferenziale. Eravate convinti di essere l’ombelico del mondo e probabilmente lo pensate ancora. Però mi sono chiesto: perché è così bella? Perché è fatta a immagine dei suoi cittadini. L’avete creata bella perché dentro di voi c’è un’anima bella. Se gli metti a posto qualche difetto di autoreferenzialità diventa meravigliosa».

 

 

L’altro è Andrea Quadro Curzio, CEO di Qc Terme, sbarcate di recente anche a San Pellegrino. E anche qui la dicotomia torna uguale: incredibili sgobboni e del tutto restii alle novità e allo “straniero”. «Qui c’è una grande cultura del lavoro. Il bergamasco però deve sempre fare una parte di fatica fisica, altrimenti gli sembra di non aver lavorato, se gli dai un compito intellettuale gli viene il dubbio che ci sia sotto qualcosa che non va, che abbia buttato la giornata. Quando abbiamo aperto ho preso part-time un impiegato amministrativo, faceva quattro ore al giorno e ogni volta, prima di andare via, diceva: posso fare ancora qualcosa? Alla fine l’ho assunto. E per non farlo sentire inutile gli facciamo portare anche la legna. La gente di qui lavora in modo incredibile, appassionato», si stupisce Quadro Curzio. Però ecco, non gli piace proprio tutta questa resistenza al turista, tutta questa mancata accoglienza: «Il turista non è un forestiero da guardare con diffidenza, ma una persona alla quale sorridere e di cui preoccuparsi come un amico o un familiare. Se ti dà fastidio che un altro entri in casa tua perché temi che raccolga i tuoi funghi, beva la tua acqua, ti occupi il parcheggio e rallenti il traffico, questo non è essere orientati all’ospite. Il punto è se accetti che un altro ti spieghi come gira il mondo». E poi di nuovo un elogio, addirittura regalandoci vinta, per una volta, la sfida con Brescia: «L’unico difetto che ho riscontrato nei brembani è che sono un po’ (batte sul tavolo, ndr) di coccio. Però che gente buona! Quando c’è stato il terremoto mi hanno chiesto se potevamo fare qualcosa per aiutare Amatrice. È gente che aiuta, generosa. Il bresciano è molto più furbo, commerciale. Lo dico per esperienza».

 

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Ci rimproverano, appunto. Ma di cosa, esattamente? Di non saper accogliere e agire di cuore? Di non saper prendersi cura del bello che si ha? Affatto. Sappiamo fare del bene: lo dimostrano i numeri delle nostre associazioni volontarie (una su tutte, l’Avis Bergamo, che, se si considerasse la percentuale relativa al numero di abitanti, sarebbe prima a livello nazionale per numero di donatori e donazioni), la nostra partecipazione a eventi di beneficenza e tante altre cose meno plateali ma non meno importanti. E sappiamo prenderci cura, di certo, della nostra città: Bergamo è ordinata, pulita ed efficiente. Non ha nulla di sensazionale, forse, Mura Venete a parte, eppure non ci si trova mai un angolo fuori posto. Provate ad andare nelle sopracitate Pavia e Torino, entrambe belle a modo loro, dopo aver vissuto per un po’ a Bergamo: vedrete strade sporche a fasi alterne della giornata e della settimana, pezzi interi abbandonati all’incuria, facciate da ripulire e giardini da potare.

 

 

Eppure, ci rimproverano. Ma di che cosa allora? A ben pensarci, ci rimproverano di non sapere fare, di questa cura e di questa generosità, remunerativo commercio e condivisione da social network. Non abbiamo lo show, per quella nostra anti-predisposizione alla verbosità e al colore dei modi e dei gesti, agli orpelli esterni e interiori, al superfluo e all’effimero. Non abbracciamo i forester (questa parola che in dialetto connota anche l’abitante del paese vicino, nota bene), perché l’affetto, a noi, l’hanno insegnato a gocce e mai espansivo, come un bene prezioso, da centellinare e tenere per le occasioni importanti, e forse neanche per quelle. E perché gli ospiti, per il caffè o il grappino, li accogliamo di cuore, ma senza esagerare, che poi ognuno a casa propria è la condizione quotidiana ideale. Non sappiamo monetizzare e diffondere mediaticamente la bellezza che negli anni abbiamo con tanta cocciuta costanza edificato e conservato, un po’ perché non ci interessa, un po’ perché abbiamo sempre vissuto e lavorato d’altro (lavoro fisico, appunto, o comunque che riempia tutto il tempo, lavoro vero, mia la cültüra). E un po’ perché, d’abitudine, casa tua la difendi, soprattutto se l’hai tenuta bene. Mica spalanchi le porte al primo che passa. Chiedetelo agli ultrà dei tempi d’oro, cos’era Bergamo, se non una roccaforte assediata. È così, in fondo, siamo tutti un po’ ultrà, almeno in questo.

 

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Dicono che rischiamo di restare nel passato, se non apriamo le polverose stanze del nostro modo di intendere il mondo, se non ci diamo una mossa, se non alziamo la fronte dalla zappa. Dimenticano, forse, necessaria altra faccia della medaglia, che è l’essere lavoratori ad aver determinato questa bellezza e questa cura. Tant’è. Comunque, da qualche anno a questa parte siamo già stati immersi in questo flusso nuovo, che assomiglia tanto (sigh) a un palinsesto tv: grandi eventi con migliaia di partecipanti, elogi martellanti sui giornali internazionali e un talk show costante sulle bellezze locali a permeare tutto. Monetizzazione e condivisione social, appunto.

Forse è il futuro, io che ho poco meno di trent’anni e amo i viaggi e i respiri larghi dovrei apprezzarlo, eppure si sente, dentro a quest’accelerata di progresso un po’ globalizzante, la pretesa di un estraneo e la conseguente forzatura. Un paio di anni fa, quando chiesi a un grande maestro milanese cosa gli piaceva di Bergamo, rispose: «Se cammini per strada senti ancora parlare il dialetto, senza bisogno di andare al sud». Appartenenza, identità. Questo aveva visto, questo lo aveva commosso. Questo mi commuove ogni volta, quando, per esempio davanti all’Abbraccio alle Mura, i giovani e gli abitanti della città corrono, si arriva da tutta Europa, ma i vecchi del mio paese senza fronzoli decretano, dopo averlo letto su L’Eco: «Mé i fó mia chele bambossade lé» (io non le faccio, quelle stupidaggini lì). E poi continuano: «Ho mai brasat fó gna’ la mé dona, quase» (non ho mai abbracciato neanche mia moglie, quasi). E, grezzi e autentici, mi consegnano l’ennesima lezione di essenzialità.

 

 

Proverò a dirlo anche in un altro modo. Capitava spesso, negli anni Sessanta, che bambini figli di donne mandate nei sanatori di montagna, per esempio per malattie contagiose dell’apparato respiratorio, venissero affidati a zie e famiglie parenti durante il ricovero della mamma. Ebbene, racconta uno che fu bimbo allora che, nella casa in cui fu accolto, la zia non gli fece mai una tenerezza. Mai una carezza, mai una parola gentile. «Ed ero lontano dalla mia mamma, eh. Però mi aveva dato il letto più bello di tutti. E andava a prendere il pane solo per me. Solo io lo mangiavo, il pane, in quella casa, perché era da comprare e non è che si navigasse nell’oro. E lo potevo avere solo quando gli uomini erano nei campi, se no guai. E la zia lo accompagnava soltanto con un: “Tè, che ‘l te fa bé” (tieni, che ti fa bene)».

E niente, questo, solo questo. Spalancateci i portoni, invitateci dentro gente. Monetizzate la nostra efficienza, condividete sui social l’ordine sfavillante che ci connota, fatene un cavallo di battaglia per il futuro che avanza. Ma non rimproverateci. Concedeteci di mantenere quella cosa lì, quel sacrario lì di identità. Il silenzioso lavorio di cuore che non si manifesta a parole, e a gesti pure poco, se non con morigerata, impacciata, rozza e tenerissima semplicità. Lasciatecelo intatto, non sostituitecelo con uno show.

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