Struttura e funzionamento

I rifugi antiaerei di Dalmine

I rifugi antiaerei di Dalmine
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Ogni città è palcoscenico del proprio vissuto storico e ogni traccia del passato nasconde una storia da raccontare. A volte questa storia è narrata e costudita nei musei, altre volte ci viene raccontata dai monumenti, dalle vie cittadine e dai dettagli che l’abitudine ha smesso di farci notare. Le tracce del passato portano alla luce anche brutti ricordi, tragedie che ancora oggi ci fanno riflettere. I ricoveri antiaerei di Dalmine risalenti alla Seconda Guerra Mondiale ne sono un esempio. Sì, perché nonostante siano trascorsi settantatré anni dalla loro costruzione e siano dismessi ormai da parecchio tempo, sono ancora lì, nei quartieri Leonardo da Vinci e Mario Garbagni, a testimoniare silenziosamente l’occupazione tedesca e la tragica devastazione del 6 luglio 1944.

Le acciaierie e la guerra. I due rifugi vennero costruiti nel corso del primo semestre dell’anno 1943, nei pressi del complesso delle acciaierie di Dalmine, conosciute allora come Officine Mannesmann. In quegli anni, l’Italia centro-settentrionale era occupata dalle forze tedesche e le acciaierie di Dalmine si erano impegnate, con l’accordo del 6 ottobre 1943, a garantire la produzione bellica per il Reich e per l’Italia in cambio di protezione militare per tutta la durata della guerra. Erano anni difficili, densi di preoccupazioni e di minacce belliche.

 

 

La costruzione dei due rifugi antiaerei. A Dalmine, dove il complesso edilizio della città si sviluppava per lo più nei pressi dell’impianto siderurgico, la necessità di difendersi dalle possibili incursioni aeree si concretizzò con la realizzazione di due ricoveri antiaerei: uno destinato al quartiere operaio Mario Garbagni, con capienza di cinquecento persone e l’altro, destinato agli impiegati e ai dirigenti d’azienda, nel quartiere Leonardo Da Vinci, che poteva ospitare almeno trecentosessanta persone.

Si legge sul blog di Gianni Facoetti: «Per la costruzione sono stati preventivati l’impiego di 10mila quintali di cemento, 350mila mattoni, 60mila mattoni forati e 150 tonnellate di ferro. Inizialmente la costruzione di entrambe le opere venne affidata a una ditta di Milano, la Damioli che in data 9 febbraio cominciò le operazioni nel quartiere Garbagni, e subito dopo in quello  del Da Vinci. Nel frattempo alla Dalmine pervennero nuove offerte più convenienti da parte di ditte concorrenti di Bergamo, che riuscirono a strappare l’appalto delle costruzioni alla rivale milanese. Alla Damioli subentrava, rispettivamente, l’Impresa Lanfranconi per il cantiere al quartiere Garbagni, e l’impresa Receputi per il cantiere del Da Vinci. Il preventivo di spesa veniva definitivamente approvato con la bella cifra di 2.050.000 lire per il Garbagni e 1.950.000 lire per il Da Vinci.

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L’esecuzione dei due imponenti rifugi prevedeva un impegno notevole sia sotto il profilo economico che sul piano delle risorse materiali e umane necessarie alla loro realizzazione. Per cercare di risolvere il problema si decise di ricorrere, come forza lavoro, all’impiego dei prigionieri di guerra del vicino campo di Grumello che accoglieva al suo interno militari ed internati di diverse nazionalità, in buona parte inglesi, francesi, greci e slavi. (il campo P.G. N. 62 di Grumello al Piano venne aperto nell'estate del 1941 in una località a pochi chilometri da Bergamo per internare prigionieri di guerra di grado inferiore, sottufficiali e truppa. Nel dicembre del 1942 aveva una capienza dichiarata di 3.000 posti-vedi DPG28). La mattina venivano trasportati a Dalmine utilizzando la linea ferroviaria Bergamo-Monza. Alla fine di giugno del 1943, la costruzione dell’opera viva risultava terminata».

Struttura e funzionamento dei bunker. I rifugi venivano raggiunti attraverso due profondi pozzi muniti di scala a chiocciola, che portavano a una profondità di circa venti metri, quota alla quale erano posizionale le gallerie destinate ad accogliere gli sfollati. I due corridoi misuravano uno sessanta e l’altro quarantacinque metri e lungo le pareti si sviluppavano dei sostegni in muratura destinati a portare panche di legno dove i presenti avrebbero trovato posto a sedere. Le gallerie erano ricoperte da uno strato di terreno, allo scopo di rallentare la penetrazione delle bombe, evitando quindi che l’esplosione avvenisse a contatto diretto con la loro superficie. Lo spazio era organizzato e predisposto con accortezza: ogni ricovero disponeva di un locale destinato al pronto soccorso, di un comparto di ventilazione e di trattamento chimico dell’aria, di un locale riservato ai responsabili del rifugio e infine di due bagni. Per garantire il contatto con l’esterno, era presente un collegamento telefonico con il centralino della Direzione dello stabilimento, le cui operatrici erano preposte a ricevere le comunicazioni provenienti dalla centrale di allarme di Milano.

 

 

Al suono della sirena di allarme, chiunque si fosse trovato in casa avrebbe dovuto scendere nel rifugio più vicino secondo un protocollo ben preciso: bisognava mantenere la calma, munirsi di abiti caldi, di acqua, di viveri e di maschera antigas. Nei ricoveri non si poteva fumare e non erano ammessi animali. Chi, invece, si fosse trovato all’aperto, era invitato a sparire dalla circolazione cercando rifugio nei bunker, sotto i porticati, negli scantinati o ai piani terreni.

Il bombardamento del 1944. Il 6 luglio 1944, le strategie di sicurezza dei bunker servirono però a ben poco, perché due gruppi di bombardieri americani provenienti dal Sud Italia scaricarono settantasette tonnellate di bombe sopra la fabbrica senza che nessun segnale d’allarme fosse diramato. I bunker rimasero vuoti e il bombardamento costò la vita a duecentosettantotto (268) persone e più di ottocento feriti. Secondo l’inchiesta dell’indagine della commissione prefettizia del 1945, l’allarme fu lanciato dalla centrale tedesca di Milano con deplorevole ritardo. Dopo il 6 luglio 1944, almeno altri sei bombardamenti interessarono il comune di Dalmine, ma questa volta i ricoveri contribuirono alla salvezza di molte vite umane.

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