Il Caffè Papavero

Shegi, la Persia ha preso casa accanto alla Fontana del Delfino

Shegi, la Persia ha preso casa accanto alla Fontana del Delfino
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Qui, alla piazzetta con la fontana del Delfino, passa il mondo. Qui resistono botteghe e bar, dallo storico Perry, alla pizzeria, al panettiere, all’edicolante-tabaccaio. Qui c’è il bar Papavero, lo gestisce Shegi, occhi scuri e profondi come il suo Paese.

Perché ha deciso di lasciare l’Iran?
«Ho deciso quando mi sono resa conto che non c’era più speranza, che in Iran la libertà è troppo lontana, soprattutto se sei una donna. Nel 2009 avevamo pensato che potesse aprirsi uno spiraglio, avevamo partecipato in massa alle votazioni per eleggere Musavi che era più aperto rispetto agli altri candidati, che poteva aprire un’età nuova per la Persia. Invece ci sono stati brogli, ha vinto Ahmadinejad, il più duro e conservatore. Ci sono state grandi manifestazioni a Teheran, la polizia ha sparato, ha ucciso una ragazza, Neda Agha Soltan. Le automobili sfrecciavano a gran velocità per le strade, falciando chi non si scansava... Ecco, lì ho pensato che era finita».

Ha scelto di andarsene quando aveva trent’anni.
«Sì, era il 2011. Fino ad allora vivevo a Teheran, lavoravo come financial manager. Non me ne ero ancora andata nonostante la situazione pesante perché con mio padre dicevamo che non potevamo andarcene tutti, altrimenti l’Iran non avrebbe avuto più speranza. In quel periodo avevo conosciuto un ragazzo italiano, pilota di aerei. Ci eravamo fidanzati. Ma in Iran non puoi camminare per strada con la tua fidanzata, devi essere sposato. Lo fermarono e gli dissero che se non faceva così avrebbe perso il posto di lavoro. Ma non ce la sentivamo di sposarci e ci siamo lasciati. Io sono caduta in una crisi profonda. A quel punto non ce l’ho fatta più».

 

 

Come è arrivata a Bergamo?
«Ho deciso per l’Italia perché l’amavo: con i miei genitori, ogni due anni, venivamo a visitarla. La sua bellezza mi ha sempre affascinato. Ho deciso per un’università inglese a Milano perché io non parlavo italiano, invece l’inglese lo conoscevo molto bene. A trent’anni quindi mi sono iscritta a un master in International Finance. Ma non volevo abitare in una grande città e allora ho preso il treno e sono stata a Brescia, Como, Cremona, Bergamo...».

E a Bergamo...
«Sono uscita dalla stazione, ho visto la città sul colle e sono rimasta incantata. Mi sono incamminata, sono arrivata dove c’è l’hotel San Marco e ho chiesto una camera per la notte. Ho passato due giorni a Bergamo, in Città Alta, poi sono scesa nei borghi e ho scoperto Pignolo... ho deciso che avrei vissuto a Bergamo. Ho affittato una casa, in via Baioni e ogni giorno andavo avanti e indietro da Milano».

E poi?
«E poi ho trovato lavoro a Torino, come consulente finanziaria. Ma non ero contenta. Stavo la settimana a Torino e nel weekend tornavo a Bergamo. Avevo conosciuto tante persone. Non ho mai avuto problemi con le persone, qui a Bergamo; a Torino invece non riuscivo a legare con nessuno».

E allora che cosa è successo?
«Non ero proprio contenta, del lavoro, della situazione. Un mio amico mi ha detto: tu cucini bene, perché non apri un ristorante? Rimasi molto sorpresa, non avevo mai pensato una cosa del genere. Ne parlai con mia madre, lei mi appoggiò. Ma un ristorante era qualcosa di troppo impegnativo, non avevo esperienza... allora ho pensato a un bar. Ho cercato in Internet, un’agenzia vendeva la licenza di un bar, mi sono presentata... era questo bar, in piazzetta del Delfino. Allora sono venuta qui, abbiamo parlato con il proprietario. Io non sapevo niente, nemmeno sapevo preparare un cappuccino e allora lui mi ha tenuta a imparare nel locale per tre mesi, prima di cedermelo».

 

 

Quando è entrata in via definitiva?
«Era il 7 dicembre del 2013. Una settimana prima avevo conosciuto Roberto, mio marito...».

Compirà cinque anni.
«Sì».

Non le manca l’Iran? I suoi genitori che cosa dicono?
«Mio padre non mi ha parlato per quattro anni: non era d’accordo, riteneva che gestire un bar non fosse all’altezza della famiglia. Adesso va un po’ meglio. Mia madre invece è contenta, viene a trovarmi con una certa frequenza. Sono tornata una sola volta in Iran, quando stava male mio nonno. Poi è morto. Ma ho paura a tornare».

Perché ha paura?
«Perché non sai mai se ti lasceranno tornare al tuo nuovo Paese. È difficile immaginare per gli italiani che cosa significhi vivere in un regime di quel tipo».

Lei ama il suo Paese?
«Tanto. Il mio paese è qualcosa che non molti conoscono. Ha una storia millenaria che inizia assai prima dell’Islam, nell’epoca di Zoroastro. Noi non siamo arabi, siamo molto diversi».

Lei festeggia il capodanno iraniano?
«Certo, in Persia il capodanno si festeggia con l’inizio della primavera, il 21 di marzo. Ho fatto una festa a casa mia. Ho cucinato piatti persiani e ho allestito il tavolo degli auguri, è come il vostro albero di Natale».

Come lo prepara?
«Sul tavolo bisogna mettere sette cose, tutte devono cominciare per “s”, nella mia lingua. Io quest’anno ho messo chicchi di lenticchia germogliati (sabzeh) a simboleggiare la rinascita; samanu (un impasto di orzo germogliato e tostato) per l’abbondanza; senjed (frutti secchi di oleastro, simili alle olive), un legante che simboleggia l’amore; sir (aglio che simboleggia salute); sib (mele rosse simbolo di bellezza); soma (bacche di sommacco, per l’asprezza della vita); serkeh (aceto, segno di pazienza e saggezza)».

 

 

Sembra che lei a Bergamo si trovi bene.
«Molto bene, sono davvero serena».

Il suo bar è un punto di riferimento per la gente del borgo e per tanti stranieri.
«Io sono felice di questo».

Lei parla con tutti quelli che entrano, a tutti chiede come stai, come va. Sembra un’unica famiglia.
«Questo è un complimento. È vero, qui ogni giorno vengono persone di tutto il mondo perché Bergamo ormai si è aperta, anche grazie al suo aeroporto, all’università. Le racconto un piccolo fatto. Due anni fa è venuta nel mio bar una coppia, doveva stare qui per due giorni in un bed&breakfast di via Pignolo. I due giorni sono diventati due settimane, poi due mesi. Vengono sempre qui, nel mio bar. Sono due uomini che stanno insieme da venticinque anni. Uno lavora per Microsoft, l’altro per Google. I due mesi sono diventati due anni e adesso hanno deciso di restare qui per sempre».

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