Il locale «La Bergamasca»

La pizza napoletana a Osio Sotto Fatta come mezzo secolo fa

La pizza napoletana a Osio Sotto Fatta come mezzo secolo fa
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C’è stato un tempo in cui la gioventù di tutta la provincia bergamasca era legata da un tacito accordo: darsi appuntamento a Osio Sotto, in via Matteotti, per accantonare le fatiche della settimana e celebrare un weekend economico Da Dino, conosciuta allora come la «discoteca dei poveri». Gli stessi locali in cui negli anni Settanta i ragazzi si ritrovavano a divertirsi al costo di poche lire, sono stati ereditati dopo varie vicissitudini dal pizzaiolo Alan Sartirani e dalla barista e cameriera Milena Aceti, colleghi di lavoro e coppia nella vita. «Dico sempre a mia moglie che il lato migliore di questa attività è che ci ha permesso di vivere e lavorare costantemente insieme - confessa Alan, con un’impercettibile sfumatura di emozione nella voce -. Lei però dice che questo è stato invece il lato peggiore». Questione di punti di vista, insomma.

 

Il pizzaiolo Alan Sartirani e la moglie Milena Aceti.

 

La vera pizza napoletana. Quel che invece è sotto gli occhi di tutti è il successo della creatura che ha preso vita in quel lontano 1992. La pizzeria con cucina La Bergamasca è infatti diventata nei suoi ventisei anni di esistenza una vera e propria istituzione per chi è alla ricerca della verace pizza napoletana e vuole essere certo di mettere sotto i denti qualcosa di veramente biologico. Una nomea di genuinità e di garanzia che il locale si è costruito dal primo istante in cui la saracinesca è stata sollevata, un giorno di tanto tempo fa. «Per l’esattezza, abbiamo aperto il 13 febbraio. All’epoca non c’era Facebook o altri canali mediatici per pubblicizzare l’evento, avevamo pregato i parenti e gli amici di venire per essere sicuri di avere qualche cliente, anche perché eravamo pieni di debiti, e avevamo l’urgenza di lavorare tanto. Invece il caso ha voluto che proprio in quelle ore, la pizzeria più rinomata di Osio Sotto avesse scelto di chiudere per due giorni, a causa di un lutto. Il 14 febbraio però era San Valentino, tantissime coppie avevano voglia di uscire a cena per festeggiare. In questo modo un sacco di clienti hanno deciso di venire da noi, di darci una chance, perché non c’erano molte altre alternative. E da allora, sono sempre tornati».

 

 

Un grande maestro. Del resto, Alan e Milena, allora trentenni, avevano già alle spalle il successo di un altro locale, ovvero L’Antenna di Dalmine, dove Sartirani ha avuto l’occasione di rafforzare l’arte della pizza, trasmessagli da un pizzaiolo d’eccezione: Mario Donzelli, uno fra i primi napoletani a portare la pizza a Bergamo. «Sono quarantasei anni che faccio questo mestiere, e ho avuto la fortuna di imparare da lui, che mi ha trasmesso la cultura della pizza napoletana di cinquant’anni fa: non è quella che va di moda adesso, pompata con il lievito di birra e con un cornicione altissimo. Io faccio la pizza napoletana come cinquant’anni fa, e non è la mia opinione, ma un dato di fatto. Non è una pizza dura, non è secca e non è molle. È una pizza con la giusta friabilità, fatta con il lievito madre, con farina biologica macinata a pietra».

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Un sogno lontano e il futuro. Mentre Alan mi racconta con fervore di fermentazione complessa, di enzimi, proteolisi e compagnia, mi fa assaggiare la bontà del prodotto che vende da oltre un quarto di secolo. E anche se a sentirlo disquisire di mozzarelle e di farine non pare possibile, scopro chiacchierando che la vera vocazione di Alan non era la pizza, ma la pittura: «Invece, a fare il pittore a Berlino, ci è finito mio figlio Daniele, che non ha mai amato la vita davanti al forno e a me e a Milena non è mai passato per la testa di imporgliela. Del resto, nemmeno nella mia famiglia c’erano pizzaioli. Mia nonna aveva cucinato per i tedeschi, mio padre era tornitore e aveva la passione per il pane. Io mi ci sono trovato per caso, quando a malapena sapevo che esistesse il mestiere del pizzaiolo».

E adesso che può dire di averlo imparato davvero, Alan lo tramanda ad altri pizzaioli che vogliano scandagliare i segretari di uno dei piatti più diffusi al mondo. «Tengo dei corsi a ragazzi che arrivano da fuori provincia, per scongiurare il rischio della concorrenza. Mostro loro il mio modo di lavorare con l’impasto leggero dell’antica tradizione napoletana. Quello che a molti pizzaioli sfugge è che per migliorare è necessario riscoprire valori che sono stati abbandonati. Per modernizzarsi occorre tornare al passato».

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