La deriva etnica delle proteste

In Burundi gli scontri continuano Il timore di un nuovo genocidio

In Burundi gli scontri continuano Il timore di un nuovo genocidio
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Sono 87 i morti in Burundi in seguito a una serie di scontri che sono scoppiati nella capitale: alcuni gruppi di assalitori hanno attaccato tre diversi siti militari per fare incetta di armi per poi prendere di mira le carceri in cui sono stati detenuti altri rivoltosi, insorti contro il presidente Pierre Nkurunziza. Nyakabiga, il quartiere in cui sono avvenuti gli scontri, è una roccaforte degli oppositori del presidente: qui da giorni va in scena una spietata guerriglia, con stragi di civili compiute da veri e propri squadroni della morte, che secondo alcuni potrebbero essere espressione di una vendetta della polizia contro i manifestanti. Molti giovani sono stati ritrovati cadaveri con le mani legate dietro la schiena.

Rischio genocidio. Ormai nel Paese il rischio genocidio è concreto, poiché fatti come quello avvenuto nella capitale si ripetono da mesi, anche se gli scontri dei giorni scorsi sono i più gravi che si siano mai registrati. La situazione è talmente grave da costringere l’Onu a valutare l’invio dei caschi blu, che sono già di stanza nella Repubblica Democratica del Congo e hanno la funzione di peacekeepers assistiti da alcune truppe d’élite provenienti dal Sudafrica, dal Malawi e dalla Tanzania. Non solo: Ban Ki-moon ha dichiarato qualche giorno fa che il Burundi è sull’orlo di una guerra con «effetti potenzialmente disastrosi su una delle regioni più fragili del continente».

Via gli stranieri. A novembre il governo belga, ex potenza coloniale e oggi accusato dal partito al potere di “armare” l'opposizione con l'intento di “riconquistare” il Paese, aveva invitato tutti i suoi cittadini presenti in Burundi a rientrare con la massima urgenza. A ciò aveva fatto seguito anche la rappresentanza diplomatica dell’Unione Europea, che ha evacuato il personale non indispensabile, e il Dipartimento di Stato Usa, che ha chiesto ai connazionali di abbandonare il Paese. Pare, stando a fonti non ufficialmente confermate, che sia imminente un’escalation militare capace di porre fine alla crisi senza interventi stranieri.

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La crisi, da aprile. Perché in Burundi è in corso una crisi politica e sociale acuita dalla rielezione, a luglio, del presidente Pierre Nkurunziza per un terzo mandato, non previsto dalla Costituzione. Alle proteste è stato risposto con la repressione, che finora ha già provocato oltre 300 morti. Secondo i dati ufficiali dell’Unhcr, aggiornati al 7 dicembre 2015, sono 223.323 i rifugiati burundesi che da aprile hanno cercato asilo nelle nazioni confinanti.

Una storia tormentata. Quella del Paese africano che sorge nella Regione dei Grandi Laghi, senza sbocco sul mare, è una crisi che viene da lontano. Il Burundi nel 1962 ottenne l’indipendenza dal Belgio e nel 1966 da monarchia costituzionale divenne una Repubblica Presidenziale. Una storia tormentata, fatta di violenze, conflitti etnici e colpi di stato. A contrapporsi le etnie degli Hutu e dei Tutsi, con questi ultimi detentori dei posti chiave delle istituzioni e dell’esercito sebbene rappresentino solo il 25% della popolazione. Nel 2000 Nelson Mandela contribuì, come mediatore a far raggiungere un accordo di pace, che tuttavia non venne accettato dalle due etnie. Tre anni dopo, con la guerra civile ancora in corso, l’Onu inviò una missione di peacekeeping. Questo portò a una parvenza di stabilizzazione che trovò la sua espressione nella presidenza di Pierre Nkurunziza. I 20 anni di guerra civile hanno provocato 300mila morti e distrutto l’economia del Burundi. Nel 2010 ci sono state nuove elezioni, caratterizzate da una recrudescenza degli episodi di violenza, causata anche dalle incursioni dei vicini ribelli congolesi. Gli ultimi disordini sono scoppiati dopo la ricandidatura di Nkurunziza, il quale ha sostenuto di essere legittimato a farlo poiché nel 2005 fu nominato alla presidenza direttamente dal Parlamento: quello attuale, quindi, sarebbe il suo secondo mandato e non il terzo.

La deriva etnica delle proteste. A nord il Burundi confina con il Rwanda, che in passato è stato teatro di uno dei peggiori genocidi della storia d’Africa. Un paragone molto forte, che tuttavia ha la sua ragion d’essere. Ai microfoni di Radio Vaticana padre Gabriele Ferrari, già superiore dei Saveriani e per anni missionario in Burundi, ha detto che nel Paese la cris, da politica e sociale sta prendendo una piega etnica. «I centri di maggiore contestazione al presidente Nkurunziza sono quelli dei quartieri abitati prevalentemente dai Ba-Tutsi» afferma il religioso, «e quindi si sta dicendo che i Ba-Tutsi sono contro il governo. Al contempo, il governo non può ignorare che molta opposizione gli viene anche dall’ambito dei Ba-Hutu. Quindi adesso, secondo me, la carta del governo è quella di mettere contro i Tutsi e gli Hutu. Ma così, evidentemente, si rischia una forma di lotta etnica: che scivoli nel genocidio… Io spero proprio di no, però il pericolo c’è. È un pericolo che non è mai stato del tutto esorcizzato: è un male che per un po’ di tempo è stato “quietato”. Oggi però siamo di nuovo alla guerra civile».

Il genocidio del Rwanda. Il rischio che oggi il Burundi sta vivendo è quindi quello del genocidio, come avvenne in Rwanda nel 1994: in quell'anno, oltre 800mila persone persero la vita in 3 mesi. A essere massacrati, all’epoca, furono i Tutsi. Oggi, quello che inquieta è una frase pronunciata dal presidente del Senato burundese, Reverien Ndikuriyo, di etnia hutu. Il politico, denunciando la morte di un agente di polizia, ha affermato che l’opposizione tutsi non dovrà lamentarsi quando alla polizia verrà impartito l’ordine di «andare al lavoro». Parole che pesano come macigni se si pensa che quell’espressione durante il genocidio del Rwanda era usata dagli hutu per dire in radio alla opolazione di «uccidere i tutsi». Oggi in Burundi la polizia spara a vista e per strada regna il terrore. La minaccia di una caccia all’uomo è concreta, soprattutto in quei quartieri della capitale in mano all’opposizione tutsi. Tutte zone che secondo Ndikuriyo andrebbero “polverizzate”.

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