La sentenza della Cassazione

Cannabis light: stop alla vendita Pare di sì, ma forse anche no

Cannabis light: stop alla vendita Pare di sì, ma forse anche no
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Sono spuntati un po’ dappertutto in questi anni, se non mesi, i negozi di cannabis light. Tutti hanno nomi gentili e accattivanti, come a respingere l’impressione che dietro quelle vetrine si venda droga. A oggi sono ottocento esercizi, nessuno ha più di tre anni di vita. Se l’offerta si è moltiplicata in questo modo è perché la domanda sommersa era molto forte; e forse perché l’effetto trasparenza ha creato una nuova fetta di clienti.

Il problema è che la filiera è cresciuta senza che nessuno avesse provveduto a fissare delle regole precise. Quello della cannabis era dunque un terreno perfetto per far attecchire uno scontro tra proibizionisti e liberalizzatori. Con la sentenza della Cassazione a corti riunite emessa giovedì 30 maggio, il pendolo si è spostato decisamente verso il lato dei proibizionisti. Secondo la Corte, i negozi non hanno legittimità a vendere. Le parole del comunicato che anticipa il testo della sentenza di divieto recitano esattamente così: «Le condotte di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della “cannabis sativa L.”, salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante».

 

 

Se la parte iniziale sembra una mannaia destinata a far chiudere i negozi, l’inciso finale apre spiragli e quindi crea terreno per infiniti possibili contenziosi (a meno che il testo della sentenza non chiarisca l’incertezza interpretativa). Per capirci, la pericolosità o meno della cannabis è data dal tasso di concentrazione del principio attivo tetraidrocannabinolo, il THC, sostanza psicoattiva inclusa nella tabella degli stupefacenti. La concentrazione consentita in milligrammi nella cannabis light va dallo 0,2 allo 0,6 per cento, come indica una legge del 2016 del ministero dell’Agricoltura, destinato ai produttori. È un passaggio della legge che è stato interpretato in modo concessivo, in quanto si è ritenuto che aprisse anche alla possibile commercializzazione, cosa che invece viene espressamente vietata. Certo, ci si potrebbe chiedere perché permettere di produrla se poi non si può venderla: ma spesso accade che quando la materia è tanto divisiva, il legislatore si vada a rifugiare in atteggiamenti pilateschi. Ora la Cassazione non interviene sul fatto che la legge non autorizza la commercializzazione, ma si rifugia in quella formula “priva di efficacia drogante”. I giudici con l’ermellino infatti non sembrano aver affrontato il tema della soglia del principio “drogante” consentito.

 

 

E allora, se nessuno di fatto decide, si ripeterà un film già visto molte volte nel nostro Paese: saranno i giudici di merito, di volta in volta, a valutare quale sia la soglia di “efficacia drogante” che rientra nei parametri del consentito. La Federazione che raccoglie produttori ed esercenti, la Federcanapa, si dice tranquilla: «La soglia di efficacia drogante del principio attivo THC è stata fissata nello 0,5 per cento come da consolidata letteratura scientifica e dalla tossicologia forense. Non può dunque considerarsi reato vendere prodotti derivati delle coltivazioni di canapa industriale con livelli di Thc sotto quei limiti». 0,5 o 0,6, come si vede anche sulle cifre c’è incertezza. I difensori della cannabis legale rivendicano il valore economico e occupazionale della filiera. «Un piccolo miracolo in un’economia stagnante», dicono. C’è solo da sperare che non sia un miracolo con effetto cloroformio difffuso...

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