Sulla riforma del Senato

La polemica nel Pd, spiegata

La polemica nel Pd, spiegata
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Giovedì 12 giugno quattordici senatori del PD si sono “autosospesi” dal gruppo parlamentare, dopo che l’ufficio di presidenza del Partito Democratico al Senato ha deciso di sostituire Vannino Chiti e Corradino Mineo dalla commissione Affari costituzionali, dove è in corso l’esame del disegno di legge sulle riforme istituzionali. Secca la reazione del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, alle prese con il primo serio incidente di percorso: «non ho preso il 41% per lasciare il futuro del Paese a Mineo».

L'annuncio dell'autosospensione è stato dato dal senatore Paolo Corsini, ex sindaco di Brescia, con una lettera letta in aula nella quale si definisce la «rimozione di Chiti e Mineo una epurazione delle idee considerate non ortodosse» e rappresenta una «palese violazione dell’articolo 67 della Costituzione», secondo il quale «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». I senatori dissidenti sono Felice Casson, Vannino Chiti, Paolo Corsini, Nerina Dirindin, Maria Grazia Gatti, Sergio Lo Giudice, Claudio Micheloni, Corradino Mineo, Massimo Mucchetti, Lucrezia Ricchiuti, Walter Tocci, Renato Turano, Erica D’Adda e Francesco Giacobbe. I 14 senatori hanno dichiarato di rimanere in attesa di ”chiarimenti” entro martedì 17, quando ci sarà la prossima riunione del gruppo al Senato.

L'oggetto della contesa
La riforma del Senato è uno dei principali provvedimenti promessi da Renzi e nel Partito Democratico si discute da tempo dell'accordo trovato da Renzi, Berlusconi e Alfano. Il testo approvato dalla Commissione prevede di trasformare il Senato in una “Camera delle autonomie” non elettiva, dove siederanno sindaci, amministratori locali e personalità della società civile nominate dal presidente della Repubblica. Il nuovo Senato non voterà la fiducia al governo, i suoi membri non percepiranno indennità e il suo voto sarà necessario soltanto per l’approvazione di alcune leggi: di fatto la riforma supererebbe il cosiddetto “bicameralismo perfetto”.

Accanto al progetto di riforma del governo ne erano stati presentati molti altri: tra questi il più noto è quello dal senatore del PD Vannino Chiti, appoggiato da molti esponenti della minoranza “cuperliana” del PD, compreso Corradino Mineo, contrari all’idea di un Senato composto di membri non eletti. Lo strappo ha provocato la dura reazione dei vertici del partito che hanno deciso di rimuovere entrambi dalla commissione, temendo che il loro voto potesse compromettere l’approvazione della riforma. Chiti è stato sostituito da Luigi Zanda, capogruppo PD al Senato, Mineo da Luigi Migliavacca. Oltre a Mineo e Chiti, in Commissione è stato sostituito anche Mario Mauro dei Popolari e il suo posto è stato preso da Lucio Romano. Durissima la reazione dell'ex ministro della Difesa: «Questo governo è un soviet da quattro soldi. È una purga staliniana, un’imboscata fascista».

Ma Renzi che da Pechino, dov'era in visita ufficiale, si è dimostrato inflessibile: «Non molliamo di un centimetro. Non lasciamo a nessuno il diritto di veto. Conta molto di più il voto degli italiani che il veto di qualche politico che vuole bloccare le riforme. E siccome conta di più il voto degli italiani, vi garantisco che andremo avanti a testa alta», ha dichiarato. I senatori hanno replicato che se sono i voti degli italiani a contare, contano anche quelli per eleggere i senatori: ma anche questo è un argomento discusso, dato che la legge elettorale fa sì che gli elettori votino i partiti e non i parlamentari.

Come spiega "Il Post" in un articolo sul tema, lo scorso 6 maggio, prima che la Commissione affari costituzionali approvasse il testo del governo come base della discussione, venne anche approvato un ordine del giorno del senatore della Lega Nord Roberto Calderoli che stabiliva che quando le Camere avrebbero discusso la riforma del Senato avrebbero dovuto fare tutta una serie di cose in totale contrasto con il ddl che la stessa commissione aveva votato poco prima. L’odg era stato votato non solo dalla minoranza (Lega Nord, SEL e Movimento 5 Stelle), ma anche da Forza Italia e dal senatore Mauro ed era stato approvato anche grazie all’assenza del senatore del PD Mineo che aveva poi detto di “non essere stato chiamato a votare”.

Cosa succede adesso?
Per avere la certezza dell’approvazione del testo del governo, Renzi ha bisogno che non si rompa l'accordo sulle riforme trovato con Berlusconi e che Forza Italia voti insieme a NCD e al PD. Altrimenti, numeri alla mano, sarebbe costretto a trovare un accordo con la minoranza del partito. La maggioranza al Senato è di 161 e se i dissidenti decidessero di non appoggiare la riforma, Renzi avrebbe la certezza di soli 156 voti. Sulla riforma del Senato il premier ha più volte minacciato le dimissioni in caso di fallimento.

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