Del tardo Cinquecento

Takayama Ukon, il samurai beato

Takayama Ukon, il samurai beato
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Beato e samurai. A quattro secoli di distanza, per una serie di straordinarie coincidenze, riemerge la storia di Takayama Ukon, un samurai giapponese che si era convertito al cristianesimo e che per questo aveva dovuto emigrare nelle Filippine dove aveva passato gli ultimi anni della sua vita. La sua vicenda si svolse nel Giappone della seconda metà del Cinquecento. Figlio di un daimyo, cioè alla testa di un principato, nasce a pochi anni di distanza dallo sbarco dei primi gesuiti in terra nipponica. Era stato il padre incuriosito a chiamare uno di loro a corte, padre Gaspare Di Lella, per capire qualcosa di quella religione arrivata da lontano. È in quel clima che Ukon a 12 anni decise di convertirsi aggiungendo al suo nome quello di Justus. Ma presto in Giappone il clima sarebbe cambiato: lo shogun (il vero detentore del potere) Hideyoshi ordinò l’espulsione dei missionari e fece crocifiggere 26 cattolici per far capire la serietà delle sue intenzioni. Per Ukon iniziò una vita di eremitaggi e nomade, dedicandosi sempre più alla cerimonia del tè. Ma nel 1614 le persecuzioni si intensificarono, così lui con 300 fedeli si imbarcò per approdare nella spagnolissima Manila.

 

 

Di Ukon e della sua storia si è tornato a parlare per una serie di coincidenze non pianificate. La prima è stato un film documentario, girato da una regista italiana, Lia Beltrami, premiato in un importante festival di Los Angeles. Un prodotto di alta qualità e frutto di un lavoro molto approfondito, che ha portato la regista a incontrare il vecchissimo vescovo che negli anni Sessanta aveva tentato di riaprire la causa di beatificazione di Ukon. Il vescovo Mizobe fece in tempo a vedere il film proprio la sera prima di morire. A gennaio la regista organizzò la visione del film nella sede dell’ambasciata giapponese in Vaticano. Era il 21 gennaio di un anno fa: la sera stessa, a sorpresa, papa Francesco firmava il decreto di beatificazione di Ukon. Pochi giorni, il 7 febbraio, fa a Osaka c’è stata la cerimonia di beatificazione. In quelle stesse settimane il film di Martin Scorsese dedicato proprio alla persecuzioni dei cristiani in Giappone, era nelle sale di Tokyo, accolto da una grande (e imprevisto) successo di pubblico.

 

 

La storia di Ukon è una storia degna di un film di Kurosawa. Infatti da daimyo al posto del padre aveva fatto carriera e conquistato molto potere, mettendosi sempre a disposizione della causa dei cristiani, costruendo la prima chiesa in Giappone (a Kyoto) e aprendo anche un seminario. Tuttavia, a partire del 1587, il clima cambiò radicalmente: lo shogun Toyotomi Hideyoshi ordinò l’espulsione di tutti i missionari e degli stranieri in genere e fece pressione sui nobili affinché tornassero alla religione dei loro antenati. La notte del 24 luglio fu convocato anche Justus Ukon. Lo shogun gli manifestò il suo dispiacere perché aveva convertito molti signori feudali. Gli ordinò quindi di abbandonare la fede, pena l’esilio in Cina e l’esproprio dei suoi beni. Ukon rifiutò, dichiarando che per nulla al mondo avrebbe rigettato il Dio nel quale i missionari gli avevano insegnato a credere. La sua pena fu quindi limitata alla perdita dei beni: insieme a tutta la famiglia, Giusto mendicò a lungo, finché non venne ospitato sull’isola di Shodoshima da un suo amico, Konishi Yukinaga. Quando nel 1614 le persecuzioni raggiunsero livelli più cruenti, gli amici suggerirono ad Ukon di compiere degli atti di abiura formale, come calpestare le immagini sacre, ma lui rispondeva invariabilmente di essere consapevole di quale tesoro costituisse la religione cristiana e che, quindi, non dovevano fargli quella proposta neanche per scherzo. Lui non lo fece. Gli venne risparmiata la vita, ma non l’esilio. Anche se ora papa Francesco lo ha beatificato come martire della fede.

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