La parola all'avvocato Salvagni

«Bossetti è innocente, ecco perché»

«Bossetti è innocente, ecco perché»
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Alle 20.35 dell’1 luglio 2016, Massimo Bossetti è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio dalla Corte d’Assise di Bergamo, presieduta dal giudice Antonella Bertoja. Si tratta del primo punto fermo di una vicenda iniziata la sera del 26 novembre 2010, quando fuori dalla palestra di Brembate Sopra la tredicenne sparì nel nulla. Il corpo della vittima venne ritrovato nel febbraio 2011, in un campo a Chignolo d’Isola. Ben sei anni e quarantacinque udienze dopo, ecco il colpevole, almeno per la Corte d’Assise di Bergamo. Siamo arrivati a un punto, ma non alla fine della vicenda.

Il 28 settembre scorso, la Corte ha reso note le motivazioni della sentenza. Oltre centocinquanta pagine nelle quali Bossetti viene definito un uomo dall’«animo malvagio», spinto al terribile omicidio dal «contesto di avance a sfondo sessuale verosimilmente respinte dalla ragazza, in grado di scatenare nell’imputato una reazione di violenza e sadismo di cui non aveva mai dato prova fino ad allora». Motivazioni che dovrebbero giustificare la condanna, dimostrare l’«al di là di ogni ragionevole dubbio» che la legge richiede perché un cittadino venga privato della propria libertà.

Requisito che, a parere di Claudio Salvagni e Paolo Camporini, avvocati difensori di Bossetti, manca. «Questa sentenza non è altro che la riproposizione della requisitoria del pm», commentò a caldo Salvagni. Tesi alla base del ricorso in Appello che i due legali hanno depositato il 12 novembre e nel quale espongono come il castello accusatorio «faccia acqua da tutte le parti». In primavera dovrebbe essere fissata la data d’inizio del nuovo processo, che si terrà davanti alla Corte d’Appello di Brescia. L’avvocato Salvagni, nel suo studio, attende. Lì lo abbiamo incontrato per cercare di ricostruire tutti i passaggi di un caso che ha sconvolto i bergamaschi e di un processo che ha spaccato in due l’opinione pubblica.

 

 

Avvocato, partiamo dall’inizio. Come è entrato in contatto con Bossetti
«La famiglia mi conosceva già. Mi hanno contattato pochi giorni dopo l’arresto».

Inizialmente ha lavorato fianco a fianco con l’avvocato d’ufficio.
«Sì, la collega Silvia Gazzetti. Poi, nel dicembre 2014, lei ha lasciato l’incarico e ho continuato da solo fino all’udienza preliminare. Più o meno in quel periodo s’è affiancato a me l’avvocato Paolo Camporini, con cui seguo il caso ancora oggi».

Siete stati aiutati anche da un folto gruppo di esperti.
«Io e Paolo siamo solo la punta dell’iceberg. Dietro di noi c’è il fantastico lavoro di un team di professionisti entrati in punta di piedi nella vicenda, dubbiosi, ma che non appena hanno letto le carte dell’inchiesta si sono messi al servizio di Bossetti. Il dottor Marzio Capra e la professoressa Sarah Gino, genetisti; l’investigatore privato Ezio Denti; la dottoressa Dalila Ranalletta, medico legale; l’ingegnere Vittorio Cianci, esperto di tessuti; l’avvocato e professore universitario di logica giuridica Sergio Novani. E ancora: Luigi Nicotera, che si è occupato dell’analisi delle celle telefoniche; Giovanni Bassetti, esperto informatico; i professionisti in psicologia clinica forense Anna Maria Casale e Alessandro Meluzzi; e il dottore in legge Roberto Bianco, che è stato un po’ il coordinatore di tutti i consulenti ».

Non capita spesso di vedere un team difensivo così ampio.
«Vero. La figura del dottor Bianco, ad esempio, credo sia una novità. Lui ha fatto da collegamento tra noi e i consulenti, anche perché loro sono gli esperti ma poi siamo noi a dover spiegare in aula il loro operato. È stato veramente un grandissimo lavoro».

Scusi la domanda un po’ indelicata, ma la famiglia Bossetti può pagare tutto questo?
«Uno dei nostri meriti ritengo sia stato l’aver messo insieme un gruppo di professionisti di primissimo livello che si sono appassionati al caso soltanto per amore di verità. Nessuno, sottolineo nessuno, ha avuto un euro di parcella. Nemmeno io».

Però il ritorno mediatico è stato elevato...
«Posso assicurarvi che anche questo è un falso mito. Tutti hanno lavorato a titolo gratuito perché la verità è che un caso del genere è capitato a Bossetti, ma potrebbe capitare veramente a chiunque, soprattutto se dovesse passare la linea giuridica adottata nella sentenza di primo grado. Diventerebbe veramente molto pericoloso e rischioso per chiunque di noi».

 

 

Lei è convinto dell’innocenza di Bossetti?
«Sì, anche se per un avvocato non dovrebbe essere un elemento rilevante. Il mio collega Paolo Camporini, ad esempio, dice: “A me non interessa sapere se l’imputato è colpevole o innocente, a me interessa sapere cosa dicono le carte processuali”. E ha ragione, anche se poi è diventato il primo convinto assertore dell’innocenza di Massimo. Ma io la penso in maniera leggermente diversa. In un processo come questo per me era importante essere intimamente convinto dell’innocenza di Massimo, perché soltanto così si può dare quel qualcosa in più. Abbiamo lavorato una quantità di ore infinita, giorno e notte. E non per modo di dire, ma davvero. Quando abbiamo depositato il ricorso in Appello, solo per la stesura finale dell’atto abbiamo lavorato trenta ore di fila. Trenta ore».

Cos’è che la rende così certo dell’innocenza di Bossetti?
«Una somma di elementi. Partiamo dal concetto che il delitto perfetto non esiste. Chiunque commetta un delitto lascia una serie di elementi che, uniti, portano all’individuazione del responsabile. Quali sono gli elementi a carico di Bossetti? Solo ed esclusivamente il Dna, la sua firma dicono. Praticamente ha compiuto il delitto perfetto e poi lo ha firmato. Già questa è una contraddizione. Non hai lasciato tracce, non c’è un punto di contatto, non c’è un movente, non c’è una ricostruzione, sei una sorta di marziano che si è calato in quel momento nella vita di questa ragazzina e l’ha uccisa lasciando unicamente il proprio Dna».

Non è cosa da poco, no?
«Il Dna diventa un elemento individualizzante, probante, quando è perfetto. Quando è esente da anomalie. In quel caso siamo tutti d’accordo: periti della difesa, periti dell’accusa, parte civile, tutti. Poi sarà il giudice che dovrà decidere. Ma in questo caso siamo così sicuri che quello sia il Dna di Massimo? La sentenza glissa paurosamente tutte le nostre eccezioni. Noi non abbiamo mai potuto partecipare a nessun contraddittorio su quel Dna. Mai».

Ci spieghi meglio la questione allora.
«Volentieri. Trovano sugli slip di Yara questa traccia di Dna. Una quantità esorbitante, tantissimo. Facciamo finta un bicchiere di Dna. In quel momento Bossetti non era conosciuto, quindi non potevano certo chiamarci a esaminare i test compiuti. Ma un conto è se ne trovi una goccia, come accaduto nell’omicidio di Meredith Kercher: lì il test viene compiuto giustamente come atto irripetibile, non è che puoi fermare le indagini. Un altro discorso, invece, è se ne trovi un bicchiere, come qua. In questo caso buona regola vorrebbe che metà Dna lo userai per far tutti i test che vuoi e metà lo conservi per il futuro, quando ci sarà finalmente un presunto colpevole».

E invece come sono andate le cose?
«Invece qui avevano molto Dna, ma non sono neppure stati in grado di dire che tipo di traccia sia. È stato escluso con diversi test, uno più sofisticato dell’altro, che si tratti di sperma. Quindi sappiamo che cosa non è, ma non sappiamo che cos’è. È tanto, non sappiamo che cos’è, ed è pressoché puro. Praticamente un fiore del deserto. Meraviglioso. È meraviglioso ma non sappiamo dirti che cos’è. Una prima stranezza: il diverso grado di degradazione proteica di Dna della vittima e Dna di Ignoto 1. Il primo era presente in tutte le sue componenti, nucleare e mitocondriale, e dimostrava l’esposizione a tre mesi di agenti esterni. Il secondo, come detto, era invece una sorta di fiore nel deserto, stranamente privo di degradazione proteica. Puro, perfetto. C’è un però: l’assenza del Dna mitocondriale nella traccia riferibile a Ignoto 1. Il Dna mitocondriale presente, infatti, oltre quello della vittima è quello di qualcun altro, di cui però non si conosce l’identità».

 

 

Il Dna mitocondriale però conta poco per il riconoscimento.
«No, purtroppo è questo che non si riesce a far capire. È un elemento fondamentale. Ho fatto questo esempio in aula: facciamo finta che si stia parlando di una rapina in banca, le telecamere inquadrano il rapinatore che entra col volto scoperto, pistola alla mano, e si vede benissimo il viso. È lui. Poi una seconda telecamera inquadra la nuca del rapinatore, ed è completamente diversa. Com’è possibile? Il viso non corrisponde alla nuca. Qualcosa non va, qualcuno ha sbagliato. Questo è quello che si è verificato. Il Dna nucleare, che è quello che si usa per le identificazioni, è il viso con mille particolari, il mitocondriale è invece la nuca, che può dirmi qualcosa ma non tutto. Però il mitocondriale deve combaciare perfettamente con il nucleare, se non combacia c’è un errore».

Come se lo spiega?
«Non so. In natura, se io tocco una persona, se io tocco lei, cosa trasferisco? Solo il nucleare o tutto quanto? Tutto. E se andiamo ad analizzarlo, possibile che non si trovi il mio Dna mitocondriale? Anzi, che non si trovi il mio ma quello di un altro soggetto? Perché questo è il caso di specie. Il mitocondriale di Yara è stato trovato, non è sparito. Ed era lì sicuramente da tre mesi, non si è degradato. Invece di Ignoto 1 non l’hanno trovato, hanno trovato un altro Dna mitocondriale, che non si sa di chi sia. Il nodo processuale è tutto qui. Ma non è un cavillo, è una questione tecnico-scientifica di fondamentale importanza».

Perché non si è ripetuto il test allora?
«Ecco, questo è il punto. Il nodo processuale. È lo stesso imputato che sta chiedendo di rifare questi esami».

È possibile ripeterli?
«Certo, ci sono ancora dei campioni, il Dna era molto. È stato detto anche in udienza che ci sono. Bossetti lo ha chiesto: “Non è possibile che ci sia io lì dentro, non l’ho mai vista questa ragazza, non l’ho mai toccata, ripetiamo i test”. Io ho passato ore con lui in carcere e gli ho  detto: “Massimo sei sicuro? Guarda che se noi chiediamo questa cosa e ce la concedono e viene fuori che sei tu, è finita”. Ma lui è stato irremovibile. Perché allora non concedergli un nuovo test? Credo sia il primo processo in Italia dove una richiesta dell’imputato di questo tipo non venga accolta».

Con che motivazione è stata respinta la vostra richiesta?
«È stata ritenuta superflua. Il problema è che il risultato è stato ottenuto con tutte le criticità che abbiamo detto. Il punto di civiltà giuridica, il punto di diritto: è questo su cui bisogna insistere. Non è possibile che sia l’imputato a chiederti di rifare il test che lo ha condannato all’ergastolo e tu non glielo concedi».

 

 

Lei dunque ritiene che quel Dna non sia quello di Bossetti?
«Non è il suo. Non ci dimentichiamo che tutti noi siamo uguali al novantanove percento. Ci giochiamo la differenza fra me, lei e gli altri in un misero un percento. Lo stesso vale per il collegamento tra Bossetti e Guerinoni, da cui si è risaliti a Massimo. Capisce che se si sbaglia ad analizzare quell’uno percento cambia tutto, cambia la persona».

E resta il problema della differenza tra nucleare e mitocondriale.
«Una differenza che non ci deve essere, che non può esistere. Infatti la spiegazione di come sia possibile questa cosa nessuno l’ha data. Se anche ci fosse una possibilità su un miliardo in natura che accada una cosa del genere, me lo devi dimostrare, altrimenti stai condannando un uomo all’ergastolo sulla base di un elemento incerto. In questo Dna ci sono più anomalie che nucleotidi, che sono gli elementi alla sua base».

Sulla stampa il messaggio che è arrivato è stato diverso. Qual è il suo giudizio sul modo in cui l’informazione ha trattato il processo?
«La stampa, a parte qualche caso isolatissimo, si è appiattita sulle posizioni della Procura. La mia è una critica alla stampa in generale. L’informazione è una cosa molto seria, molto delicata. Fare cronaca significa dire le cose come stanno davvero, non distorcere la realtà. Perché ciò che scrivono i giornali e che dicono le televisioni, arriva ai giudici. Sono umani anche loro».

Si riferisce al famoso video del furgone?
«Quel filmato ha fatto dei danni pazzeschi. Guarda caso il Dna di Ignoto 1 è il Dna di Bossetti, lo stesso che girava intorno alla palestra. Beh, allora è lui. È chiaro che nell’opinione pubblica si rafforza questa convinzione. Poi però, se andiamo a misurare il passo del furgone nel filmato con quello di Bossetti, viene fuori che è diverso. E togliamo l’ipotesi che Bossetti fosse lì. In questo processo si è piegata la realtà per far tornare tutto, ma non torna niente».

 

https://youtu.be/aOYNJQdhgjg

 

Lei stesso però è sceso spesso sul ring mediatico.
«Io ho subito detto che i processi si fanno in Tribunale. Sin dal primo giorno. Ma alla fine sono stato costretto ad espormi per cercare di tappare le falle e le voragini aperte dalla Procura. Le sembra normale che venissero pubblicati degli atti coperti da segreto istruttorio? Io ho avuto il fascicolo processuale, le famose sessantamila pagine, dopo alcuni giornalisti. Com’è possibile che in un processo dove vige il segreto istruttorio, dove in fase di indagine le cose non dovevano sapersi, sono state sbandierate in televisione e sui giornali? Sono stato costretto ad espormi e dire: “Guardate che stanno dicendo delle cose che non sono corrette”. Qui si è cercato di demolire l’uomo, demolire tutto ciò che gravitava intorno a lui, alla sua famiglia, ai suoi affetti. Perché non si è aspettato il processo? Poi però, in aula, le televisioni non sono state ammesse. Vi posso assicurare che se ci fossero state le telecamere, sarebbe cambiata da così a così l’opinione pubblica. Il fatto degli amanti della moglie, ad esempio, che senso aveva se non quello di demolire Bossetti?».

Perché dimostra possibili tensioni tra Bossetti e la moglie, ipotizzo.
«Ok, ma allora mi deve dimostrare anche, qualora questa storia fosse vera, che lui sapesse di questi amanti. E poi, dove sta scritto che un uomo in crisi matrimoniale passa da sua moglie a una tredicenne? Qual è la logica?».

Nessuna.
«Le racconto un aneddoto avvenuto durante uno degli interrogatori. A Bossetti, dopo alcune domande, viene chiesto: “Lei lo sa che non è figlio di Giovanni Bossetti?”. Massimo rimane spiazzato. È un uomo arrestato per un omicidio e gli viene data una mazzata psicologica di questo tipo. Non paghi, mezzora dopo gli dicono: “Sua moglie ha l’amante”, e tirano fuori le presunte fatture dei motel. Lui si dispera, ma accusano anche lui di tradire la moglie. Bossetti nega e loro gli mostrano un bigliettino con scritto dei nomi di donna e dei numeri di telefono. A quel punto Massimo ha fatto un mezzo sorriso e ha spiegato che, togliendo le prime e le ultime cifre di quei numeri, venivano fuori alcuni codici che non si ricordava a memoria, tipo il pin del bancomat. Cioè, questi non avevano neppure provato a chiamarle questa fantomatiche amanti».

Sta dicendo che le indagini sono state approssimative?
«Io posso solo dire che in questo processo sono successe cose pazzesche. L’ho urlato in udienza e non ho timore di ripeterlo. Abbiamo sentito degli alti ufficiali dei carabinieri venire in aula a dire cose contraddette da altre risultanze. Le faccio un esempio: uno degli elementi fondamentali era capire se Yara fosse realmente morta in quel campo di Chignolo o se fosse stata portata lì successivamente. È evidente che questo elemento cambia tutto. Ciò che legava Yara a quel campo era il fatto che il cadavere stringesse nella mano destra degli arbusti. Un colonnello testimoniò e disse di aver visto con i suoi occhi il fatto che gli arbusti fossero radicati al suolo. Dunque Yara era per forza morta lì. Poche udienze dopo ha invece parlato il medico legale. A precisa domanda sulla questione della presidente, dottoressa Bertoja, la professoressa Cattaneo ha risposto: “No, gli arbusti non erano radicati al suolo”. Quindi Yara potrebbe non essere morta lì. E, se così fosse, l’accusa mi deve anche dire dove è morta. Chi sta dicendo la verità e chi sta mentendo? Tutto questo è successo, è nei verbali di udienza. Come è nei verbali di udienza la questione del video del furgoncino di Bossetti: un colonnello dei carabinieri, comandante dei Ris, che ammette che quel video è stato realizzato di comune accordo con la Procura per esigenze di comunicazione. Perché è successo tutto questo? La risposta non la so, ma i fatti sono oggettivi».

 

 

C’è anche la questione delle ricerche sul computer...
«Un’altra grandissima bufala che ha condizionato l’opinione pubblica. Hanno descritto questo omicidio come un delitto a sfondo sessuale, quindi ci voleva un assassino con un profilo ben preciso. Chi è pedofilo non è pedofilo una volta nella vita e basta. Serviva qualcosa che dimostrasse che Bossetti aveva quel profilo. Ma nel suo computer non hanno trovato niente. Zero. Però è stato fatto passare il contrario. Le ricerche che più si possono avvicinare a quel mondo, inoltre, sono presto spiegate. Bossetti e la moglie hanno ammesso che, talvolta, guardavano insieme siti per adulti. Così come Marita ha ammesso di aver fatto lei stessa delle ricerche pornografiche. Poi mi son pure fatto una certa cultura: il termine “teen”, ad esempio, è una delle categorie più cliccate nel porno, ma non vuol dire che si cerchino delle minorenni. Vuol dire giovani, non minorenni. La famosa ricerca “tredicenni”, invece, ha dichiarato di averla fatta il figlio maggiore, che all’epoca aveva quell’età. Quindi non ci sono ricerche pedopornografiche, anche perché se ci fosse stata la detenzione di un solo fotogramma di qualcosa di pedopornografico gli avrebbero contestato anche quel reato giustamente. Cosa che invece non è avvenuta».

Ha parlato di profilo dell’assassino. Qual è invece il profilo di Bossetti? Che tipo è?
«È un muratore bergamasco, una persona molto ingenua. È un tipo diretto, ti dice le cose di impulso, istintivamente. È uno sincero. Gli hanno rivoltato la vita come un calzino per trovarci qualcosa. Non hanno trovato niente, zero. In otto anni sarà uscito otto volte. La sua vita era la famiglia».

Un fatto strano è che non si sia mai riusciti a trovare punti di contatto tra la vita di Yara e quella di Bossetti.
«Perché non ce n’erano. Nessuno ha potuto dire che li ha visti anche una sola volta insieme, che si conoscevano. Non c’è una foto, un messaggio, una chat WhatsApp, un contatto sui social network».

È stato dato molto peso alla frequentazione di Bossetti del solarium di Brembate Sopra.
«Ci andava, si faceva la sua lampada, pagava e usciva. È un delitto? Anche in questa cosa è stata data enfasi a elementi assolutamente secondari. Uno che va a farsi una lampada vuol dire che diventa un pedofilo assassino? Non credo».

Però è un bugiardo. Lo chiamavano “Il Favola”.
«No, assolutamente. Lei si riferisce alla storia del tumore inventato sul posto di lavoro, giusto? Bene, quell’episodio spiega perfettamente chi è Bossetti. Durante l’udienza in cui si è parlato di questa vicenda, lui ha alzato la mano e, in totale spontaneità, ha detto: “Io sono mortificato, ho fatto una cosa bruttissima raccontando quella bugia, ma l’ho fatto perché non venivo pagato”. E io lo so, visto che quando è stato arrestato non riceveva lo stipendio da sei mesi. Si era inventato una storia che gli permettesse di cercarsi un altro lavoro per tirare avanti. Cosa dava altrimenti da mangiare ai figli, la sabbia, i forati e il cemento? In un minuto, spiegando la cosa, ha chiuso l’argomento in maniera credibilissima, tanto è vero che non è stato neanche ripreso in sentenza. Si tratta soltanto dell’ennesimo elemento di questo processo che è stato raccontato in malafede».

Perché, secondo lei?
«Qui si è preso un punto di partenza, un punto di arrivo e poi gli si è costruita la storia in mezzo».

Ma perché Bossetti?
«Mi sta chiedendo se lo hanno voluto incastrare?».

Lei lo pensa?
«Non lo so. Ho delle mie convinzioni che però non dico a nessuno perché al momento non sono supportate da prove. Quello che posso dire è che, processualmente, gli elementi che sono stati raccolti contro Bossetti non sono assolutamente concordanti, non si incastrano, e l’unico elemento che c’è, il Dna, è altamente critico. Questa è una storia senza storia. Non c’è il movente, non c’è l’arma del delitto, non c’è niente. Lo stesso pubblico ministero ha dovuto alzare le mani e dire: “Io non sono in grado di ricostruire la dinamica”. Com’è avvenuto l’omicidio? Killer e vittima si conoscevano o non si conoscevano? Yara è salita volontariamente su quel furgone o è stata rapita?».

 

 

Quindi per lei le accuse a Bossetti non sono casuali.
«C’è la possibilità che non lo siano. Ma c’è anche la possibilità che sia stato veramente un caso, perché se avessero voluto individuare proprio Bossetti ci avrebbero impiegato una settimana».

E come?
«Bossetti col suo furgone passava di lì, non ci voleva tanto a incrociare i dati di cui erano in possesso. Una settimana gli bastava».

Quali saranno i prossimi passaggi processuali?
«Attendiamo che venga fissato il processo d’Appello. E speriamo che possa essere concessa la perizia sul Dna, perché credo che sia un principio di civiltà giuridica. Con la perizia sono certo che si possa arrivare all’assoluzione».

Bossetti come sta?
«Alterna momenti di incredibile forza, in cui vuole lottare fino in fondo, ad altri di grande depressione, come è facilmente immaginabile».

E lei è fiducioso?
«Non posso che esserlo, altrimenti dovrei cambiare lavoro. Significherebbe non credere nella giustizia».

Il processo di primo grado ha messo a dura prova la sua fiducia nella giustizia?
«Sì, perché quando entri in certi meccanismi ti accorgi che c’è un qualcosa di più grande. Io credo che in un processo normale, senza tutto questo clamore, l’imputato sarebbe già stato assolto. Certo, stiamo parlando di un assassinio; chiaro che emotivamente colpisce il fatto che sia stata uccisa una bambina. Però non è tollerabile la disparità di trattamento che è stata riservata a Bossetti rispetto ad altri imputati. Per questo credo che, soprattutto in Cassazione, non possa passare il principio giuridico passato in primo grado, dove il Dna, per di più con tutte le sue criticità di specie, rappresenta un timbro di colpevolezza assoluto. Se così fosse, allora bisognerebbe cambiare il codice e dire che quando c’è il Dna non lo facciamo neanche il processo perché non puoi dimostrare il contrario».

Qual è il suo timore?
«Che non si stia cercando la verità».

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