L'incredibile storia di un bimbo afghano

L'Odissea di Syed durò otto anni Oggi l'ex profugo diventa dottore

L'Odissea di Syed durò otto anni Oggi l'ex profugo diventa dottore
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Syed Hasnain. Anzi dottor Syed Hasnain. Oggi infatti alla Sapienza di Roma Syed discuterà la sua tesi di laurea. Un giorno importante. Ma ancor più importante per uno come lui che dieci anni fa era arrivato in Italia, nascondendosi sotto il motore di un camion, dopo un viaggio durato ben otto anni.

La storia di Syed è una di quelle capaci di smontare tutti i preconcetti che si possono avere sull’immigrazione. È nato nel sud dell’Afghanistan da una famiglia Pashtun, affiliata ai talebani. Nel suo destino c’era quello di diventare un combattente e poi, con ogni probabilità, un martire per Allah. Così era andata a suo padre. Così ai suoi fratelli maggiori. Ma sul destino di Syed vegliava la mamma: una donna di etnia hazara, non disposta a vedere tutti i suoi figli finire tra le armi.

Così alla vigilia della probabile chiamata, mamma Sedyqa si decise a «liberare» quel suo figlio che aveva dieci anni. Lo portò al mercato e lo consegnò a un uomo. Il giorno dopo Syed era in Pakistan, grazie ai soldi con i quali la mamma lo aveva salvato dai talebani. Una mamma coraggiosa, che sapeva in cuor suo che quello comunque sarebbe stato un destino migliore per suo figlio. In realtà per Syed era l’inizio di una odissea. Costretto a lavorare come bambino, con altri bambini. «A un certo punto mi rintracciarono i miei fratellastri e vennero per convincermi a tornare e combattere. Avevo 14 anni e ormai sapevo che quella non era più la mia storia», racconta oggi. Non disse di no. Semplicemente fuggì.

Una grande fuga attraverso Iraq, Turchia e Grecia. Ogni volta avventure per sopravvivere che potrebbero valere la scrittura di un’Odissea. Una fuga lunga nei tempi, durata anni, passata per un attraversamento in barcone verso le isole greche, con tre giorni in mare chiuso nella stiva respirando l’aria dei motori. Poi Patrasso e gli ultimi tremila dollari affidati al camionista che lo nascose sotto il suo Tir. «Quando è sbarcato a Brindisi ha preso l’autostrada e io rischiavo di restare ustionato dal motore. Per fermarlo ho dovuto rompere la coppa dell’olio».

 

 

È a quel punto che inizia la storia italiana di Syed, rifugiato afgano. Il primo incontro è quello con un pizzaiolo di Benevento, che lo ha ospitato e rifocillato per qualche giorno. «È stato il primo gesto di umanità della mia vita. Avevo sempre ricevuto violenze e odio. Così ho deciso che l’Italia sarebbe stata la mia nuova terra».

Oggi Syed ha 30 anni, un figlio, Taha, e ha anche potuto riabbracciare la sua vecchia madre che nel frattempo è andata in Pakistan. Ma soprattutto Syed oggi si laurea con la tesi che è la sintesi della sua vita e del suo impegno: «La partecipazione dei rifugiati nei processi decisionali». Con altri amici infatti ha fondato un’associazione, Unire, che vuole portare tutti quelli come lui a lavorare sui tavoli dove si discutono le politiche migratorie. Syed non rivendica diritti particolari. Rivendica la possibilità di mettere a disposizione di chi decide il suo sapere e la sua esperienza. Spiega con molta calma: «L’Europa non è consapevole del patrimonio di civiltà che custodisce nella sua storia e nella sua identità. Chi è rifugiato invece ne ha piena coscienza. Per questo siamo una risorsa. Per noi l’Europa, terra di rifugio, è terra santa». Grazie di ricordarcelo, dottor Syed.

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