Riflessioni dell'1 novembre

Cosa vuol dire davvero essere santi (così come lo spiegò don Giussani)

Cosa vuol dire davvero essere santi (così come lo spiegò don Giussani)
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Festa di Tutti i Santi: per una logica anche semplicemente di somma matematica, quella del 1 novembre dovrebbe essere la più grande di tutte le feste. In un giorno solo si festeggiano le migliaia e migliaia di santi, proclamati e non, che hanno segnato il cammino degli uomini nella storia. Eppure, questa che dovrebbe essere la più “festosa” di tutte le feste, oggi cade in una sorta di vuoto di coscienza collettiva. Non si lavora, non c’è scuola, ma il motivo non è ben chiaro a nessuno. Eppure il culto dei santi, dei singoli santi, in tantissimi casi è ancora ben vivo pur dentro questo mondo affollato di nuove mitologie globali. Basti pensare all'intensità di devozione per un Sant'Antonio, per Santa Rita, per San Francesco, o, per stare su figure più vicine a noi nel tempo, padre Pio o Riccardo Pampuri. Quindi permane l’attaccamento a singole figure che ancora fanno breccia nel cuore delle persone, a cui ci si rivolge per le cause impossibili. I santi nella loro singolarità sono ancora presenze vive, riconosciute e amate.

 

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Invece è la categoria dei “santi” nel loro insieme che si è eclissata. È diventata un fattore impercettibile nella coscienza collettiva. Come si può spiegare questa differenza di percezione? Forse per trovare una risposta bisognerebbe risalire alle ragioni di questa celebrazione, tra quelle che la chiesa cattolica ha chiesto allo Stato laico di mantenere. L’idea della festa di Tutti i Santi, come tanti segni genialmente disseminati dal cattolicesimo sul percorso di vita delle persone, sta a indicare che l’idea di santità è un qualcosa di più vasto, di più pervasivo che non le storie speciali delle figure verso le quali rivolgiamo la nostra devozione. In quel “tutti” c’è una coincidenza con l’idea “universale” che è sin dentro la radice della parola “cattolico”. La santità è una dimensione che tocca la vita di tutti, è un’ipotesi che si esercita nei gesti e nelle scelte che ciascuno fa nella propria vita. Non è un semplice essere buoni, è una coscienza del proprio limite. O, per essere più concreti, di una “mancanza” che è costitutiva nel nostro agire anche buono.

 

 

Lo spiegò una volta, in modo geniale, don Luigi Giussani. «La santità», scrisse, «è affermazione dell’impossibilità che l’uomo ha, nella realtà, di compiere anche un solo gesto perfetto, come diceva Ibsen, l’incapacità che l’uomo ha a guardare un solo istante, nella sua vita, come perfetto». La santità non è quindi raggiungimento di una perfezione, ma coscienza vissuta di questa impossibilità di perfezione. Continuava don Giussani: «Se c’è una cosa che non comprendiamo, moralmente parlando, è la parola “santità”. Ma un bacio dato al proprio figlio senza santità è turpe, è mentitore, o disperato!». Per questo la santità si sintetizzava per don Giussani in una sola parola, una domanda, pronunciata dagli uomini di ogni tempo e di ogni latitudine: «Vieni!».

La festa del 1 novembre è la festa di tutti gli uomini e le donne che coscienti dell’incompiutezza di ogni proprio gesto, si rivolgono ad un “tu” perché “venga” e dia quella pienezza di cui non siamo capaci. È la festa di chi ha avuto la libertà di mettere un “tu” al cuore della propria vita e del proprio agire, non solo nei momenti di palese bisogno, ma nella costruzione di ogni giornata. Forse se la festa di Tutti i Santi sembra così lontana è proprio per il fatto che siamo in una stagione dominata invece dall’io e dalla sua illusione di avere la perfezione a portata di mano.

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