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Ode spassionata allo stocazzismo contro la pesantezza del mondo

Ode spassionata allo stocazzismo contro la pesantezza del mondo
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Questo è un articolo di Domenico Naso, un divertissement apparso su IlFattoQuotidiano.it l'11 marzo. Lo riproponiamo, convinti che lo "stocazzismo" sia un buon modo di prendere la vita, con «un senso più leggero, impalpabile, quasi metafisico e spirituale. È il vuoto riempito con levità e rassegnazione gioiosa prettamente romane, è la voglia di non prendersi troppo sul serio, è la consapevolezza che, mentre tutto affonda, bisogna avere il coraggio di continuare a prendere e prendersi in giro. È leggerezza, dunque, ma è leggerezza pregna di contenuto». Proprio così.

 

Non è un fenomeno nuovo e neppure troppo di nicchia, quindi non staremo qui a tentare di vendervi la moda del momento. Lo “stocazzismo”, però, è ormai una sorta di stato mentale, di predisposizione alla vita e alle sue quotidiane miserie, che merita di essere celebrato e raccontato come si deve. Chissà quanti, tra chi legge, hanno stocazzato qualcuno nel corso della loro vita. Magari anche “before it was cool”, cioè prima che sui social diventasse una sorta di passatempo nazionale. In principio era un semplice (e verbale): «Sai chi ti saluta? STOCAZZO!». E giù a ridere, come dodicenni idioti, perché stocazzo fa ridere tutti, e chi nega è solo un ipocrita sacerdote della “qualità”. Ma René Ferretti, mitologico regista de Gli Occhi del Cuore, si è già espresso prima di noi e con incredibile efficacia: «La qualità a noi c’ha rotto il cazzo!». Punto e a capo.

Stocazzare, dunque, era un divertissement sciocchino tra amici annoiati, tutti attenti a non cascarci e che poi, puntualmente, ci cascavano come pere mature. Poi i social hanno fatto il resto, con la sublime arte di stocazzare i vip (o presunti tali), gli influencer (che a quanto pare non sono persone gravemente malate), le webstar varie, avariate ed eventuali. Se volessimo fare i fighi veri, torneremmo indietro addirittura al 1977 e a I Nuovi Mostri di Risi, Monicelli e Scola, con l’elogio funebre di Alberto Sordi: «E ti ricorderò anche nello sketch della telefonata d’amore, quando io al telefono ti dicevo: “Pronto? Pronto, chi parla? Chi è?” e tu rispondevi “STOCAZZO!”». Citazione che è arrivata fino ai giorni nostri, fino a Lo chiamavano Jeeg Robot, caso cinematografico dell’anno: bussano alla porta. «Chi è?». «Stocazzo». Un fil rouge meraviglioso che decreta l’attualità perenne dell’espressione ormai mitologica.

 

 

Negli ultimi quarant’anni, stocazzo ha seguito l’evoluzione dei costumi e della società, si è fatto concavo e convesso pur di sopravvivere, fino a quando non ha ritrovato lo smalto di un tempo e, in una versione 2.0 riveduta e corretta, è tornato in auge come era giusto che fosse. Che poi, diciamolo, stocazzo è la risposta all’amatriciana al “42” della Guida galattica per gli autostoppisti: «È la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto». È come il nero, sta bene su tutto. È come Montalbano, mette d’accordo tutti. È davvero il più fulgido esempio di genio italico, altro che Rinascimento e spennellatori vari.

Lo stocazzo, da non confondersi con “sto cazzo” (es.: sentirsi ‘sto cazzo, atteggiarsi a ‘sto cazzo), racconta chi siamo e soprattutto cosa vogliamo dalla vita. Perché mentre tutti chiedono la luna, l’amore eterno, il posto fisso, i soldi, il sesso, la salute o altre cose che ormai sappiamo essere inesistenti, gli stocazzisti si accontentano di molto meno. Di stocazzo, appunto, e non in un greve senso fisico (sebbene la sessualità fluida imperante possa far credere il contrario) ma in un senso più leggero, impalpabile, quasi metafisico e spirituale. È il vuoto riempito con levità e rassegnazione gioiosa prettamente romane, è la voglia di non prendersi troppo sul serio, è la consapevolezza che, mentre tutto affonda, bisogna avere il coraggio di continuare a prendere e prendersi in giro. È leggerezza, dunque, ma è leggerezza pregna di contenuto...»

 

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