Tra bellezza e storia

Il Palazzo di Città Alta all’asta e quell’antico omicidio in Basilica

Il Palazzo di Città Alta all’asta e quell’antico omicidio in Basilica
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La perizia effettuata dall’architetto su incarico del tribunale ha parole tecniche, fredde. Ma questo palazzo rappresenta qualcosa di importante per la città, legato alla sua storia, anche a una delle pagine più drammatiche delle vicende bergamasche. Parte del palazzo andrà all’asta nei prossimi giorni: è stato pignorato dal tribunale fin dal 2015. L’architetto Maurizio Zambelli, incaricato della perizia, ha scritto: «Il bene oggetto di pignoramento e di esecuzione è costituito da un’unità immobiliare ad uso residenziale ai piani interrato, terra, primo piano e ammezzato (un totale di 773 metri quadrati) e da due posti auto al piano interrato sito nel fabbricato denominato “Palazzo Perini, già Brembati” ubicato in Bergamo via San Lorenzino 11-13». Un palazzo di lusso, comprensivo di una piscina interna, con scalone, saloni affrescati. Un edificio vincolato dalla Sovrintendenza, addirittura a partire dal 1909. La sua origine è molto antica, quello che vediamo oggi è il palazzo costruito nel Cinquecento, con alcune modifiche apportate nel Settecento e in età neoclassica. La stima del professionista parla di un valore di quattro milioni di euro. Nell’edificio molte le testimonianze storiche, compresi alcuni affreschi del Cariani ispirati a temi mitologici (pare che tuttavia oggi non siano visibili a causa di una tinteggiatura effettuata negli Anni Trenta). Lo stesso Cariani nel Cinquecento dipinse diverse facciate della Città Alta, compresa quella che si ammira ancora oggi in piazza Mascheroni con scene tratte dall’Orlando Furioso.

 

 

Una storiaccia antica. Il palazzo di via San Lorenzino, in origine apparteneva alla famiglia Brembati, di antica nobiltà, famiglia protagonista suo malgrado di una terribile vicenda accaduta il primo di aprile del 1563: un Brembati venne assassinato in Santa Maria Maggiore, durante la messa del Giovedì Santo. Erano anni non semplici per Bergamo, nonostante il governo della Serenissima. Nel 1549 era stato avviato un tribunale speciale dell’inquisizione romana e a Bergamo arrivò un frate che aveva fama di fanatico zelo: Michele Ghisleri, futuro papa Pio V. Il frate avviò un processo contro il vescovo di Bergamo, Soranzo, e il nobile, dottore in legge, Giorgio Medolago, accusati di seguire l’eresia luterana. La risposta della città al tempo non si fece attendere: si scatenarono i tumulti, venne assalito il palazzo dell’inquisizione e lo stesso frate Ghisleri rischiò di venire linciato, ma riuscì a fuggire. Venne salvato proprio da un Albani, Gian Gerolamo. Ghisleri non scordò mai quel favore.

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Quell'odio tra due nobili famiglie. Ma da dove nacque l’odio fra Brembati e Albani? All’inizio di quel secolo erano stati proprio i Brembati ad aiutare gli Albani nella loro scalata sociale. Che si fece sempre più concreta e forte. Nel 1535 una Albani, Magdalena, aveva sposato un Brembati, Francesco Ottaviano, quindi i rapporti tra le famiglie erano ancora buoni. La nobiltà degli Albani venne decretata da Carlo V nel 1543, mentre nel 1555 Giangirolamo Albani venne nominato “Collateral generale” da parte di Venezia (cioè comandante di truppe di terraferma). Alla notizia, per tre giorni suonarono le campane del Comune e per tre notti si accesero i falò. Nel 1558 l’Albani fu dichiarato esente da ogni contributo fino a quando fosse rimasto in carica. La ragione precisa del litigio di base non è conosciuta. Si sa però che nel 1551 un forte disaccordo esisteva tra Giangirolamo Albani e Giovan Battista Brembati. Negli anni ci furono altri episodi, anche di violenza fisica, compresi un paio di tentati omicidi. Tuttavia, nel marzo del 1563, Giovanni Francesco Albani si presentò al podestà Marcantonio Morosini dichiarando di volere fare la pace con Achille Brembati. Il 30 marzo il podestà convocò Achille Brembati, che accettò la pace e propose di celebrarla durante la Messa del Giovedì Santo, primo di aprile, in Santa Maria Maggiore. Ed eccoci a quella mattina. Quando il sacerdote arrivò al Sanctus e sollevò l’ostia consacrata esplose un colpo di archibugio e si vide il conte Achille Brembati, inginocchiato, cacciare un urlo. Ci fu un grande trambusto e uno dei congiurati si avvicinò al conte con la pistola per sparargli alla testa, ma il Brembati riuscì a parare il colpo con il braccio destro, che rimase gravemente ferito. Si scatenò il finimondo. Anche il ferito si alzò, cercò di raggiungere l’uscita. Riuscì a raggiungere il sagrato, ma cadde fra la basilica e il Palazzo della Ragione. Dal palazzo di fronte a porta San Giacomo (che ancora non c’era) arrivarono i parenti: c’erano la moglie, Minerva Rota, la mamma, la sorella Emilia. Brembati spirò.

 

 

Un palazzo che racconta storie. Giovanni Domenico Albani e i sicari riuscirono a fuggire dalla città. La Serenissima lo condannò a morte, ma il nobile si rifugiò lontano; con lui vennero condannati l’autore materiale del delitto, il conte Manfredo Lando, di Piacenza, e altri complici. Anche Giovanni Francesco Albani, autore della promessa di pace, venne condannato, al confino perpetuo a Creta: fece la sua proposta in malafede, d’accordo con il fratello. Fu condannato al confino anche il vecchio generale Giangirolamo Albani, nell’isola di Lesina. Ma la vicenda non si ferma qui, si verificarono altri attentati e morti, dall’una e dall’altra parte. Intanto, nel 1570, il vecchio Giangirolamo fu creato cardinale dal suo vecchio amico Ghisleri, ora Papa Pio V: a quel punto, Venezia revocò il confino e il 17 giugno 1570 Bergamo esultò con grandi feste per la concessione della porpora. Il 21 agosto 1580, i Brembati perdonarono gli Albani tutti, tranne Giovan Domenico. Quel palazzo di via San Lorenzino di tutti questi fatti fu testimone. I suoi ricordi sono scritti con un alfabeto occulto per noi uomini, sulle sue pietre.

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