La "bergamaschità" resiste (a fatica)

I sette comandamenti di un autentico bergamasco

I sette comandamenti di un autentico bergamasco
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Foto in apertura di Rocco Bergamelli

 

Nascere nella nostra terra non basta. Un vero bergamasco costruisce giorno dopo giorno la propria identità, con la stessa attenzione e cura meticolosa che dedica all’edificazione di una casa. La schiena, come il muro, deve essere dritta e la testa a livella, o meglio, a bóla. In questo percorso verso l’essenza stessa della natura orobica siamo aiutati da frasi, semplici osservazioni o veri e propri motti che ci vengono tramandati dai genitori, suggeriti dagli amici o che raccogliamo semplicemente per strada o al bar, in quella che Facebook chiama l'“Università della vita”, che da noi è più una scuola d’avviamento professionale. Espressioni che forgiano il nostro carattere e la nostra personalità, e non ci abbandonano mai, in qualsiasi circostanza della vita. Una rapida esplorazione di questi detti dipinge un quadro abbastanza realistico di come siamo, o di come dovremmo essere.

 

Fà l’òm
(Fai l’uomo)

Il semplice imperativo categorico bergamasco. Un verbo, un articolo e un sostantivo che definiscono una filosofia, un modo d’essere, un’etica pratica da esercitare quotidianamente. Le sfumature del suo significato sono molteplici, e spiegarle richiederebbe lo spazio di un’enciclopedia, ma può essere utile riassumerne almeno i tratti principali. Fà l’òm significa assumersi, sempre e comunque, le proprie responsabilità, siano quelle dello studio, del lavoro o del matrimonio. Vuol dire reagire alle avversità della vita affrontando con spirito positivo anche sventure che avrebbero stroncato Giobbe stesso. Corollari di questa affermazione sono il mantenere la parola data, il portare a termine il lavoro assegnato, il rispondere del proprio operato. Anche se si tratta di un gioco infantile, il piccolo bergamasco non imbroglia, perché ha appena iniziato a costruirsi la propria identità. Sarà un’attività che lo terrà impegnato per tutta la vita.

 

Fà mia ol löciaègie
(Non fare il piagnina)

Quel termine un po' così, dall’etimologia oscura, rappresentava per i bambini bergamaschi il peggiore insulto. Forse perché evocava un comportamento da vecchietta, debole di fronte alle evenienze della vita. Non si poteva quindi reagire col pianto a sbucciature, insuccessi scolastici, piccoli tradimenti degli amici. Reprimere le lacrime si trasforma a poco a poco in un generale contenimento delle emozioni, applicato anche a quelle positive. Non a caso non siamo celebri per i nostri gesti d’affetto e il nostro calore nei rapporti umani va scoperto e indagato, come del resto cita il distico di Giacinto Gambirasio sul nostro carattere: fiama de rar, sóta la sènder brasca. Nessun gesto fiammeggiante, ma un fuoco che ci arde dentro e che occorre avere la pazienza di scoprire. Se non ci si scotta prima.

 

Stà lontà di fómne
(Stai lontano dalle donne)

Sembra strana questa esortazione, per un uomo che, come rileva il Tiraboschi, è cassadùr (cacciatore), non solo con cane al seguito. Eppure a molti di noi è stata instillata una certa differenza verso il genere femminile, probabilmente visto come possibile causa di perdizione. Una tentazione diabolica che ci poteva distogliere dallo studio o dal lavoro, portandoci verso la dannazione o, più prosaicamente, impedendoci di raggiungere quel benessere materiale che deriva dall’applicazione caparbia e senza distrazioni alla propria attività. C’è da dire che l’esortazione vale solo per lo stadio della murusa (fidanzata), perché quando la donna raggiunge il rango di moér (moglie), perché si è trovato chèla giösta (quella giusta), la prospettiva cambia completamente. A questo punto la donna assurge al rango di regina della casa, incontrastata regiura che detta modi e tempi della vita casalinga. E che, in caso di discussione, ha l’ultima parola anche con il più aggressivo e virile dei compagni.

 

Ü di nòste bande
(Uno delle nostre parti)

Definire quale sia il territorio racchiuso in questa espressione non è facile. L’unica ipotesi che si può avanzare è che sia, in ogni caso, un’area molto ristretta. Dire “bergamasco” per noi significa poco. Se si è cittadini si appartiene a un Borgo, a una contrada, a un rione. Se si vive in provincia, le distinzioni paradossalmente si moltiplicano. Occorre innanzitutto specificare non solo il paese, ma anche la frazione, la vicinanza a un luogo caratteristico, l’appartenenza a una famiglia, fin quasi ad arrivare al numero civico. Sì, perché da noi la comunità, a volte, è composta da una sola persona. Non stupisce, quindi, che l’appellativo di forès-cc (forestieri) abbia confini molto ristretti, che a volte partono dal pianerottolo.

 

Parla cóme te màiet
(Parla come mangi)

La conoscenza della lingua (ci spiace un po' chiamarla dialetto) bergamasca non solo è auspicabile, ma è indispensabile. In alcuni paesini delle Valli, l’italiano è la terza lingua, dopo il bergamasco locale e quello standard. Ogni contrada ha la sua inflessione, il suo lessico, la sua grammatica. Può capitare che un valdimagnino non capisca un trevigliese, e viceversa. In alcune enclavi, come i piccoli negozi di ferramenta e le botteghe di paese, non c’è altro modo di dialogare o di ordinare. Ci sentiamo a nostro agio con la nostra raffica di monosillabi, siamo evangelici quando rispettiamo la prescrizione: «Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno». Diffidiamo infatti di chi parla ladì, cioè in modo fluido e scorrevole, perché sappiamo bene che la favella spesso nasconde un raggiro. Anche se dobbiamo ammettere sconsolati che al giorno d’oggi a l’val piö la lapa de la crapa, con una prevalenza dell’eloquenza sull’intelligenza che ci trova, ovviamente, in disaccordo.

 

Cassa dét ol có ’n césa
(Metti la testa in chiesa)

Cresciuti con un senso radicato della religione, instauriamo con l’Onnipotente un dialogo che oscilla dalla devozione alla blasfemia, si direbbe con intensità paragonabili. La nostra innata concretezza ci spinge a chiamare l’Essere Supremo con un termine, Signùr, che lo riconduce a una dimensione più familiare, quella di possidente locale. Per il quale proviamo un timore reverenziale, del quale ammiriamo l’intelligenza e la lungimiranza, ma con il quale a volte abbiamo da ridire, non condividendo alcune scelte che ci vedono protagonisti. Più confidenza ci ispira la Madre di Dio, da noi venerata e invocata più volte al giorno, a testimoniare un rapporto di familiarità e consuetudine. La Madóna, insomma, ci pare più accessibile e vicina, più incline alla misericordia che alla condanna. Per quanto riguarda gli edifici religiosi, li frequentiamo sì, ma con giudizio. Non vorremmo mai passare per impustùr de Mèssa prima (impostori da Messa dell’alba), persone che frequentano la celebrazione solo per una deprecabile volontà di protagonismo.

 

Pòta

Esiste però una cartina di tornasole che permette di escludere la bergamaschità del soggetto, così come il test per il riconoscimento dei replicanti di Blade Runner. Se la persona in questione nel giro di un’ora non usa almeno tre volte l’interiezione pòta, ci sentiamo di negargli la patente di homo bergomensis.

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